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L’ulivo della vita

Il bollitore del latte sul fuoco, con i suoi sbuffi di vapore e quel sommesso fischio, somigliava a una vecchia locomotiva. La tavola, apparecchiata per la colazione mattutina, era baciata dal sole che attraversava il largo finestrone della veranda. Elisheva, come tutti i giorni, si era alzata prima per preparare la colazione al marito e ai due figli.Crostini di pane, marmellata fatta in casa, latte di pecora, il tutto condito con la normalità dei gesti quotidiani, mentre i suoi occhi vagavano distratti oltre le mura di casa, verso lo spazio aperto, rivolti a quel muro che non era solo una recinzione, un confine della proprietà, ma anche una protezione. Da quando alla sua famiglia era stata assegnata quella colonia, nei territori occupati dei palestinesi a Nablus, Elisheva aveva sempre considerato quel muro la sua unica certezza, una sorte di ponte levatoio verso il mondo esterno.

Tolse il bollitore dal fuoco e si accinse a portare le scodelle a tavola. Il latrare di Terry, il bastardino voluto dalla piccola Sara, la distolse un attimo dal suo affaccendarsi. Guardò verso il cane, cercando di capire il motivo di quell’abbaiare. E vide. Il cuore le fece un balzo in petto, l’aria sembrò mancarle ai polmoni, le sue mani persero forza, le dita si allentarono. Le scodelle caddero a terra come piccoli meteoriti che precipitano dal cielo. Il rumore dello schianto la percorse come una vibrazione riportandola alla realtà, liberandola dal torpore della sorpresa per immergerla nella paura. La paura, sì, quella che da due anni covava. Sin dall’inizio era stata cosciente che quel giorno sarebbe potuto arrivare. Là fuori, oltre il muro, nella rada del suo porto sicuro, sul ponte levatoio violato, si stagliavano due figure: un uomo e un bambino. I loro vestiti, la carnagione, i loro tratti mostravano ciò che erano, la personificazione degli incubi di Elisheva: palestinesi.
Hadas, il marito, era accorso in cucina al rumore delle stoviglie infrante.
Elisheva lo guardò, riuscendo a profferire solo due parole:
“Là… fuori!”
Il marito le cinse le spalle, guardando nella direzione indicata.
“Non è nulla, non preoccuparti”
Fece seguire alle parole una stretta sulle spalle della moglie. Non voleva impaurirla dandole l’impressione di essere preoccupato.
“Vado fuori a vedere cosa vogliono. Tu rimani qua”
“No! Non andare. Chiamiamo la Polizia.”
Hadas le pose dolcemente un dito sulle labbra; capiva che era in preda al terrore. Sapeva che quel terrore era forse un nemico ancora più pericoloso delle persone là fuori.
“Non dire sciocchezze, moglie! Sono solo un vecchio e un bambino. Magari vogliono l’elemosina”.
Elisheva cercò di ribattere, ma Hadas, con un gesto deciso, troncò il discorso e si avviò alla porta.
“Rimani qua, con i bambini”
“Hadas…”
“Non ti preoccupare, andrà tutto bene”
Hadas uscì nel cortile, chiudendosi la porta alle spalle. Sapeva che la moglie lo avrebbe seguito con lo sguardo dalla finestra. Lo sapeva e sperava in cuor suo che non avrebbe visto ciò che temeva.
In passato altri coloni erano stati vittime della rabbia dei palestinesi. Hadas aveva sempre pensato fosse una contraddizione essere vittima di chi, forse, era vittima a sua volta. Per questo non si era mai voluto armare.
“Shalom” salutò alzando la mano.
“As-salam alaykom” rispose il vecchio palestinese.
“Posso esservi utile?”
Il vecchio stringeva il ragazzino, di circa sei anni, accanto a sé. Non sembrava animato da cattive intenzioni e il tono della sua voce era affabile, quasi come un vecchio amico.
“ Mi chiamo Maazin e questo è mio nipote Aadil. Non siamo qui con cattive intenzioni, né a elemosinare il cibo o tuoi averi. Vorremmo solo un favore da te e dalla tua famiglia.”
Hadas li guardò incuriosito.
“Parla pure Maazin, io sono Hadas Benachia”
“So chi sei. Lo so perché non posso ignorare chi è proprietario della terra che era nostra una volta…”
“Un momento, vecchio, se sei qui per disputare…”
Un cenno della mano dell’anziano palestinese lo interruppe. Maazin, con voce ferma continuò:
“No! Non sono qui per discutere con te di quello che il tuo Signore Dio ti ha promesso senza avvertirti che era già stato concesso ad altri. Non voglio pretendere ciò che non sono stato in grado di proteggere. Ti chiedo solo un favore, perché era un diritto e un dovere della mia famiglia da secoli”
Hadas rimase titubante, colpito dalla fermezza dell’anziano e più incuriosito che impaurito.
Maazin continuò:
“Te lo chiedo in nome di mio nipote Aadil e di suo padre Azeem, morto un anno fa. Lui avrebbe dovuto accompagnarlo in questo viaggio verso la conoscenza della sua famiglia, come io lo avevo accompagnato da bambino.”
Hadas continuava a non capire, ma sapeva che doveva ascoltarlo fino in fondo. Era qualcosa che superava la sua logica, entrava nel circuito di una strana consapevolezza cui non sapeva dare forma, ma era lì, anche fisicamente, e gli premeva contro lo stomaco.
“Dimmi, vecchio, fammi capire come posso esserti d’aiuto”
Il vecchio Maazin sorrise. Quanti anni poteva avere e quanta vita era trascorsa dinnanzi ai suoi occhi?
“Ti chiedo solo di poter mostrare a mio nipote la vita della sua famiglia e porre il suo nome nella storia. Solo questo. E poi andremo via.”
L’israeliano era sempre più sconcertato ma decise di assecondare l’anziano palestinese.
“Non riesco a capire come, spiegati meglio”
“Dietro casa hai un ulivo centenario, vero?”
“Sì”
“Puoi portarci là?”
Hadas annuì col capo e indicò al vecchio e al bambino la via. Mentre li accompagnava pensò: Che sciocco! La vera cortesia l’ha usata il vecchio. Lui sa certamente come arrivarci. Ha detto di esserne stato il proprietario, ma ha usato verso di me il rispetto che si tributa al padrone di casa.

ulivo
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Arrivarono al giardino dietro casa dove, fra fiori e piccole aiuole, faceva sfoggio di sé un maestoso ulivo che risaliva, secondo la datazione del tronco, al 1150 d.C. Era diviso in due tronconi, con un grande spazio cavo in cui entrava tranquillamente una persona.
Il vecchio palestinese lo guardò soddisfatto, e Hadas avrebbe giurato di aver visto una lacrima trattenuta in quegli occhi stanchi, ma fieri.
“Grazie, Hadas Benachia. Grazie di averci consentito di vederlo e grazie di averlo mantenuto così come lo lasciammo. Altri tuoi fratelli ne hanno fatto mensole e mobili”
Hadas rispose ai ringraziamenti con un cenno del capo. Oramai la curiosità lo aveva sopraffatto e voleva andare sino in fondo.
“Dimmi Maazin, come può quest’ ulivo spiegare a tuo nipote le sue origini? Non posso credere che tu sia venuto solo per vedere questa pianta,anche se secolare e piena di fascino.”
Maazin rispose con un sorriso, battendo la sua mano ossuta sulla spalla di Hadas, come se lo conoscesse da una vita, come fraterni amici e non appartenenti a popoli diversi, divisi da mura e odio.
“Hai ragione, e meriti almeno una spiegazione. Ma fammi prima sedere alla sua ombra. Sono vecchio e le ossa scricchiolano e dolgono”.
Hadas aiutò il vecchio a sedersi su una delle enormi radici che spuntavano dal terreno.
“Dimmi Hadas, cosa hai sempre visto tu in questa pianta, oltre alla sua vecchiaia, alle sue radici e al suo tronco? Cosa mai ha saputo offrire ai tuoi occhi oltre i suoi frutti, la sua ombra?”
“Non saprei, Maazin, cosa avrei dovuto mai vederci? Quanto vale per te questo ulivo?”
Il vecchio gli indicò il tronco e con un gesto gli fece cenno di avvicinarsi.
“Guarda bene, Hadas. E guarda anche tu piccolo Aadil. Nella corteccia vedrete segnati i nomi della nostra famiglia. A destra segnavamo i nostri nascituri , sulla parte sinistra il loro nome quando Allah li riportava a sé. A seconda dell’altezza del segno puoi capire la nostra storia. Mi hai chiesto quante vale per me, per noi, quest’ulivo? Ebbene posso risponderti: niente. Tutto”
Hadas aguzzò gli occhi e vide. Scrutò i segni che mai aveva notato prima, quasi cancellati dal tempo, inequivocabilmente erano lì da molto prima di lui. Ne ignorava l’esistenza, perché mai si era soffermato a guardare con attenzione, considerando l’ulivo solo come una pianta che era là, al pari dei sassi e della terra. Quella pianta aveva resistito ai secoli, al calore e al freddo, al vento e alla pioggia, alle invasioni e alle lotte di tanti popoli. Aveva resistito alle ruspe israeliane che avevano abbattuto i vecchi edifici palestinesi. Era lì, maestosa, muta testimone di una verità volutamente ignorata da molti israeliani. Quell’ulivo, con i suoi segni, le tacche sulla corteccia a segnare le nascite e i lutti di quella famiglia palestinese, senza ombra di dubbio, mostrava a chi appartenevano quelle terre. Hadaz capì solo allora quello che forse aveva sempre sospettato ma mai ammesso: non c’era Dio, non c’era libro che potesse giustificare la sua presenza a scapito di quella di Maazin e del piccolo Aadil.
Il vecchio sembrò capire lo smarrimento di Hadas, quasi ne avesse compassione. Con un gesto lento estrasse dalla tasca un coltellino e lo porse all’israeliano. Hadas lo prese e capì, prima che il vecchio parlasse.
“Permetti a mio nipote di scrivere la fine della storia di suo padre ,e l’inizio della sua ,sul nostro albero della vita. Ti chiedo solo questo,amico mio”
Hadas annuì col capo, porse il coltellino al ragazzino e se lo issò sulle spalle per raggiungere il punto indicato dal nonno e incidere il nome suo e del padre. Dieci minuti, mezz’ora, una vita. Hadas non riuscì a misurare il tempo impiegato dal bambino per intagliare i nomi sulla corteccia, ma gli sembrò che, innanzi ai suoi occhi, scorressero interi secoli di storia, di vita, di morte, di sopraffazione. Alla fine, Aadil gli fece cenno di aver finito, restituendogli il coltellino, e lui lo ripose gentilmente a terra, ammirato da quel silenzio che traeva più parole di quante inutili bocche potessero pronunciare.
Hadas fece per ridarlo a Maazin, ma lui lo rifiutò con un gesto secco .
“Tienilo tu, Hadas Benachia. Ti ricordi, questa piccola lama, che l’acciaio può essere forgiato per uccidere ma anche, a volte, per ricordare e unire.”
Hadas biascicò qualche ringraziamento, mentre il vecchio palestinese si alzò e assieme al bambino, si avviò silenzioso verso l’uscita della colonia.

nonno e nipote palestinesi
nonno e nipote palestinesi

Arrivarono al cancello. Il cane aveva smesso di latrare. Sua moglie Elisheva era al portone. Forse aveva visto tutto. Chissà se aveva capito. Le avrebbe spiegato ogni cosa, sperando di farle capire che il muro avrebbe potuto proteggerli ma non da tutto, non dalla verità. La verità andava affrontata.
Il vecchio si rivolse ad Hadas salutandolo in arabo
“Maha-s-salâmati”(Arrivederci)
“Shalom” rispose Hadas
Maazin si girò per andarsene ma Hadas sapeva che non poteva finire così.
“Maazin!”
Il vecchio si voltò e lo guardò incuriosito.
“Maazin, c’è niente altro che possa fare per te?”
Il vecchio sospirò, annuì col capo e rispose.
“Insegna la storia di quell’ulivo ai tuoi figli. Insegna la storia della mia famiglia alla tua famiglia. Raccontalo ai tuoi figli che lo raccontino ai loro figli e nipoti. Un giorno, quando mio nipote verrà a incidere il mio nome sul lato sinistro, e il nome dei suoi figli e dei suoi nipoti sul destro, potrà ritrovare ancora l’ulivo e la nostra storia. E una porta aperta per accogliere, non un muro a respingere. Ti chiedo questo. È troppo?”
Hadas sorrise, forse per la prima volta in quella giornata iniziata col latte che bolliva, le fette di pane e la marmellata fatta in casa, le scodelle rotte e il latrare di un cane.
“È troppo? È niente. È tutto!”

Un pensiero su “L’ulivo della vita”

  1. Bella molto bella questa storia. Vorrei che le storie tra Palestinesi e Ebrei finissero tutte in questo modo. Forse più che una storia è una favola…ma a volte è bello credere alle favole e sperare che possano essere una realtà. Consolatori i miei pensieri? Forse si! Perché il cuore a volte si stringe quasi a far male e solo i pensieri belli e buoni possono dar pace. Vero il mio cuore può risanarsi ma certe storie hanno bisogno di ben altro……….Del cuore di chi ha in mano le sorti di questo mondo e per quelli non che basti una bella storia !!!

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