I PROMESSI DEFUNTI
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso il Nazareno, sulla sera del giorno 14 aprile dell’anno 2018, don Abbondio Martina, curato fallimentare di ciò che rimaneva di un vecchio partito.
Alto , allampanato, con l’aria di chi si trova lì per caso, fosse alla guida di un partito oppure ministro dell’agricoltura che scopre la piaga del caporalato a posteri, percorreva il suo tragitto leggendo e rileggendo il discorso che gli avevano preparato.
Facendo caso di non inciampare in virginiani fossi romani, evitando i sampietrini divelti e qualche gabbiano che, irrispettoso della sua persona, defecava dove si trovava, il curato fallimentare Martina, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo che conteneva, una volta gloriosa, l’insegna del Partito Defunto, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.
Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole.
Uno di costoro, basso, pelato e con barba, stava a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e con l’altro piede, a fatica, posato sul terreno della strada.
Il suo compagno, alto, tarchiato, con una kippah in testa, era invece in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.
L’abito, il portamento, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
A prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi cortigiani del terribile signorotto di Rignano.
Che i due descritti, che rispondevano al nome (come il curato Martina riconobbe) di Orfini, detto “piccolo” e Fiano, detto “Duce”, stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente.
Ma quel che più dispiacque a don Abbondio Martina fu il
dover accorgersi che l’aspettato era lui.
Perché, al suo apparire coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui.
Don Abbondio Martina domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no.
Anzi, capì che il motivo di cotanta visita era proprio che cercava di portare la sua sinistra a un matrimonio che inficiasse la destra.
Che fare? Tornare indietro, non era a tempo e poi dove, a palazzo Grazioli, verso Palazzo Chigi dove erano stati appena sfrattati dal popolo votante, oppure al Campidoglio dove era quella megera della Virginia? No, grazie!
Darla a gambe? Ma non era lui colui che aveva detto che si sarebbe ritirato come Cincinnato se avesse perso il referendum, le politiche, le regionali, i tornei di scopone scientifico.
Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, confidando che i due bravi cortigiani pur erano sempre suoi ex compagni.
Affrettò il passo, recitò una massima di Berlinguer a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, similmente a quanto fece il suo predecessore Bersani quando si accorse di non aver smacchiato giaguari.
“Signor curato, “ disse quello che rispondeva al nome di Orfini, sollevandosi sulla punta dei piedi nel tentativo di piantargli gli occhi in faccia.
“Cosa comanda? “ rispose subito don Abbondio Martina.
“Lei ha intenzione, “ proseguì l’altro, nella persona del ribaldo Fiano, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una fresconeria, ”lei ha
intenzione di maritar domani il Partito Defunto e il Movimento 5 Stelle?”
“Cioè…” rispose, con voce tremolante, don Abbondio Martina: “ cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato fallimentare non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro il cazzaro di Rignano e il nano di Arcore, vincono le elezioni gli altri , la pietra tombale Mattarella rompe i coglioni e poi…e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscuotere; e noi…noi siamo i servitori dello Stato”
“Or bene, “ gli disse il bravo Orfini, facendosi sollevare da Fiano sino all’orecchio di Martina, con tono solenne di comando, ”questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”
“Ma, signori miei, “replicò don Abbondio Martina, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, ” ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca, ma vogliamo veramente che i grillini si alleino con la Lega del fosco Salvini?”
Dall’occhiata che gli lanciò, truce, Orfini, si accorse presto, Martina, di aver detto una cazzata sull’indossare i suoi panni e allora si rivolse, dimentico di forme simili in altezza ma poco di circonferenza, al Fiano.
“ Almeno lei, Fiano, potrebbe tentare..”
” Orsù, “ interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Mica siamo davanti alla platea semi vuota delle feste dell’Unità! Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Segretario avvertito… lei c’intende”
Anticipando la flebile risposta di don Abbondio Martina, il truce Orfini riprese:
“Il matrimonio non si farà, o… o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo.”
“ Zitto, zitto, ” riprese il Fiano: ” il signor curato Martina è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor Cazzaro di Rignano nostro padrone la riverisce caramente. E le consiglia di star sereno”.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio Martina, come, nel forte d’un temporale notturno della forza del 4 dicembre, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti in una notte del 4 marzo, e accresce il terrore di ogni altra elezione.
Egli, il povero Martina, ben sapeva che il Cazzaro di Rignano avesse avuto nei suoi antenati l’undicesima piaga d’Egitto che convinse il Faraone a liberare gli ebrei, prima che il popolo lo cacciasse a calci nel nobile deretano.
Ben sapeva che il primo piddino della storia, la tessera m°00000, fosse stato quel Mosè costretto a vagare nel deserto quanti anni ci sarebbero voluti a far funzionare, 3000 e passa anni dopo, il suo omonimo a Venezia, costruito in onore delle acque che si ritirarono allora, ma che ancora oggi affogano i veneziani come allora affogarono gli egizi.
Un tremore lo percorse le membra, gli vennero meno le ginocchia e capì che non aveva altra uscita.
“… Disposto… disposto sempre all’ubbidienza” profferì il povero Martina.
I due bravi lo salutarono e don Abbondio Martina riprese il suo cammino, confuso e annichilito.
Molti giurarono che chi entrò, dopo tale incontro, nella sede del Nazareno, fosse una persona assai piu’ curva, invecchiata, tremebonda e sfinita.
Sembrava essere in lui reincarnato, in fattezze, lo spirito del profeta del Partito Defunto, tal Piero Fassino da Torino.
Avanti, adagio, fanculo