SAMPEI, HOLLY E SHINGO TAMAI
«Forse il fatto di avere avuto un po’ di talento innato mi ha giocato un po’ contro perché mi sono accontentato di quello che avevo e questo a fine carriera sarà un rimpianto» ( Alvaro “Chino” Recoba)
Montevideo, metà anni ’80, una assolata e lenta giornata come tante altre, c’è una scogliera vicino al porto come tante altre, c’è un campetto di periferia polveroso come tanti altri
C’ è un ragazzino intento a pescare su quella scogliera e c’è una squadra giovanile, sotto di tre reti nel primo tempo, intenta a disputarsi una finale di un torneo in un campetto di periferia polveroso.
Sarebbero due storie diverse, separate, se non fosse che quel ragazzino con la canna da pesca si è semplicemente dimenticato che ha condotto quegli altri 11 ragazzini a quella finale, seminando avversari e spargendo goal e magie a profusione.
Sarebbero due storie diverse se quel ragazzino, cercato con insistenza fra la fine del primo tempo e l’inizio, non lasciasse la canna da pesca da Sampei e indossasse gli scarpini da calcio da Holly per, proprio come in un cartone animato, entrare in campo in tempo, segnare 5 reti e vincere quel torneo.
Montevideo, 2014, un pomeriggio fresco di novembre come tanti altri; uno stadio, il Centenario, dove si affrontano in un derby per il titolo Nacional e Penarol, come tante altre volte.
E’ il 94°, siamo sul’ 1-1, quando un ragazzo di 38 anni disegna, su calcio di punizione, una parabola che è come una saetta, tanto repentina è nell’attraversare quei 30 metri che la separano dalla sua destinazione finale.
Sembra uscita dal cartone animato “Arrivano i Superboys”, quello dove il pallone perde la sua sfericità per assoggettare a se le leggi della fisica, e quel ragazzo di 38 anni somiglia a Shingo Tamai.
La calcia con i piedi, è come se fosse accompagnata dalle mani e dagli occhi di tutta una tifoseria.
S’infila nell’angolo alla sinistra del portiere ed è tripudio.
Sarebbero due storie completamente diverse, quella del bambino prima Sampei e poi Holly, e quella del ragazzo di 38 anni che calcia come fosse Shingo Tamai, se non fosse che non siamo in un cartone animato giapponese, anche se quel bambino e quel ragazzo hanno lo stesso volto orientale, lo stesso sguardo di chi si è alzato dal letto dieci minuti prima, e gli stessi piedi, anzi uno solo, il sinistro, che ti dicono che è quasi certamente sudamericano e non solo perché siamo sempre a Montevideo.
Tra il dimenticarsi di una finale e il ricordarsi di essere un calciatore a 38 anni capace di fulminare portieri da distanze siderali c’è tutta la carriera di Alvaro “Chino” Recoba, uno dei più grandi talenti incompiuti, ciò che accade quando ci troviamo di fronte un concepimento tra un Dio Calcio ubriaco e una Dea Palla dispettosa.
IL “CHINO”
«Non raccontarmi l’incompiuto, dammi i tuoi progetti/ Non dirmi quante volte hai visto la deriva /
Non raccontarmi i passi indietro/ Portami in viaggio e non restituiremo niente al tempo perso» ( La Vita in un Anno – Alessandra Amoroso)
Cosa è stato Alvaro Recoba per il calcio?
Un incredibile trequartista, capace di partire con il Nacional dalla sua area, saltando in dribbling uno, due, tre, quattro avversari e il portiere per poi depositare il pallone in rete (chi vi ricorda?), perso però spesso nelle lenzuola di un letto fra le braccia di Morfeo?
Una fantastica seconda punta, capace di portare il Venezia dalla zona retrocessione quasi in Europa, ma appesantito da cene e libagioni mai smaltite in campo con giusto approccio alla fatica in allenamento?
Un meraviglioso artista del calcio, che ruba la scena a un certo Ronaldo (quello vero) nel giorno dell’esordio a San Siro, e dipinge nei cieli della Milano nerazzurra, nel giro di 5 minuti, due missili da 30 metri, uno in movimento e l’altro su punizione, ma che da l’impressione di essere sempre piu un Sampei imprestato al calcio che un Holly convinto di voler bucare tutti i Benji che gli si parano dinanzi?
Forse Alvaro Recoba è tutti questi messi insieme, il fuoriclasse, l’anarchico, il dormiglione.
O forse non è nessuno di essi.
E’ solo un ragazzo che, non avendo conosciuto miseria e fame da bambino, è cresciuto con l’unico vero avversario che non è mai riuscito a dribblare o fulminare come fece con Cervone quel pomeriggio a San Siro: se stesso.
«Odiava la corsa, la tattica: era disgustato da queste cose. E Novellino diventava matto. Poi il mercoledì c’era il doppio allenamento, il mattino era sempre parte atletica. Lui ogni mercoledì, l’allenamento iniziava alle 10, arrivava alle 10 meno due minuti, sempre. Poi tempo di cambiarsi e tutto… non iniziava mai in orario come gli altri » (Pippo Maniero, compagno di squadra al Venezia).
Alvaro è uno di quei maledetti del calcio, uno di quelli che può essere tutto, ma finisce con l’essere il contrario di tutto.
Uno di quelli che te ne innamori pazzamente, come una bella donna, e ne accetti anche i tradimenti, le bizze, sapendo che quando ti si concede ti regalerà un amplesso meraviglioso.
E’ così forse per Massimo Moratti, presidente dell’Inter, che lo porta in Italia, e forse in lui rivede un altro maledetto/benedetto del calcio meneghino, quel Mariolino Corso, tutto estro e donne, che tanto piaceva al padre Angelo.
Papà Massimo, all’uruguagio dagli occhi a mandorla, concede tutto e perdona tutto, mescolando soldi, rimbrotti, dormite e applausi per il suo personale figliol prodigo
Oppure Recoba è il classico giocatore che, in fin dei conti, finisci per odiare perché dei doni posseduti ne fa sfregio.
Ci sono in lui due persone, l’Alvaro dormiglione, pigro, scansafatiche (mai dedito a una vita dissennata fuori dal campo, questo è vero, semplicemente era un campione nelle ripetute dormienti nel letto) e il Recoba calciatore fantasioso, diamante puro.
A testimoniarlo è la stessa moglie Lorena, conosciuta quando aveva dieci anni e lui si perdeva una finale per andare a pescare:
«E’ pigro, molto pigro: ci manca soltanto che debba anche alzarlo dal letto la mattina e poi vestirlo, e qualche volta mi è toccato farlo. Può stare a letto un numero di ore imprecisato…».
Alvaro Recoba non conosce mezze misure, sempre a cavallo sulla sottile linea di demarcazione tra l’idolatria che rasenta il fanatismo e il moralismo che condanna senza pietà.
E’ il classico antieroe del calcio, quello che ti fa piangere dalla rabbia o dalle gioia, con quella sua andatura indolente, quella faccia assonnata di chi si è svegliato su una panchina a bordo campo senza sapere come ci è capitato, con quel sinistro che dipinge emozioni, nei suoi tifosi e in quelli avversari.
Poi entra, e ti risolve le partite, come succede ad Empoli, dove entra al 70° e dieci minuti dopo uccella da centrocampo (torno a chiedervelo, chi vi ricorda?) il povero Roccati.
Come faceva un altro dannato del calcio, Ezio Vendrame, del quale ho scritto a parte.
Oppure capace di sbagliarti il rigore contro l’ Helsinborg che ti elimina dalla Coppa Campioni
Alvaro è la croce e delizia di ogni allenatore, che sia il serafico Gigi Simoni oppure il vulcanico Walter Alfredo Novellino.
Che al momento di spiegare la tattica da adottare al suo Venezia, liquidava la pratica Recoba con una semplice frase: « Il Chino è un fenomeno, là davanti fa quel cazzo che vuole».
Perché il Chino è fatto così, inutile volerlo cambiare, meglio che sia tu ad adeguarti a lui, se ne vuoi sfruttare le capacità, innegabili.
Altalenante come lo possono essere le stagioni, il Chino è il classico giocatore da mezza stagione.
Altrimenti non si spiegherebbe come abbia potuto uno in 25 anni di carriera superare poche volte le 20 presenze a campionato, statistiche alla mano.
«Poteva essere il più forte, semplicemente non l’ha voluto» dirà Juan Sebastian Veron.
Più dell’amore per il calcio, innegabile, possono in lui la pigrizia e una specie di atavico rifiuto di tutto ciò che comporti sacrificio.
Può sedersi a un tavolino alla Pinetina, mentre i compagni si allenano, e fumarsi una sigaretta con la stessa naturalezza con la quale dribbla i difensori come birilli e inventa calcio che solo in paradiso si può giocare.
«In lui la pigrizia era pari al genio. Enorme. E il conflitto, inevitabile, tra questi due tratti distintivi venne alla fine vinto dalla pigrizia, purtroppo per l’Inter e per la sua carriera». (Sandro Mazzola) .
UN SOGNO E NIENTE PIU
«Ed io che sono un solitario non riesco, per avere disciplina ci vuole troppa volontà»
(Tramonto occidentale – Franco Battiato)
E forse è semplicemente pigro quella sera che, in un derby col Milan in semifinale di Coppa Campioni, sbatte fiaccamente il pallone addosso a Dida invece di fulminarlo con uno dei suoi soliti tiri, quelli che ti chiedevi sempre dove arriverebbero senza la rete di protezione.
Ma quello che Alvaro toglie, Recoba concede.
Il problema è sapere prima chi scende in campo!
Così si congeda dall’Inter con l’ultima perla, l’ennesima, contro il suo avversario preferito, l’Empoli, e direttamente dal calcio d’angolo.
Torino, Panionons, Danubio e Nacional per un finale di una carriera che poteva essere tanta roba in una vita lunga vissuta da calciatore, è stata tanta roba in una vita vissuta poco da professionista.
La sua grandezza inizia dal suo sinistro, che abbagliava gli stadi, seppur a intermittenza, e termina nel suo piede destro, quello che non usava neppure per alzarsi dal letto.
Nel mezzo ci sono due persone, Alvaro e Recoba, il ragazzo pescatore mai cresciuto, e il calciatore che non è stato.
Tra quella battuta di pesca lasciata per segnare 5 goal in una finale di un torneo giovanile e quel calcio di punizione segnato al 94° vi è racchiuso tutto l’uomo Alvaro Recoba.
Non importa, perché dopotutto, come ricorda Massimo Moratti con una lacrima non nascosta, «Recoba è sempre rimasto un sogno: tu lo mettevi in campo e sapevi che poteva farti in ogni momento la cosa più bella che avevi mai visto»