IL NUREEV DEL CALCIO
«È dimostrato statisticamente che in una partita di novanta minuti ciascun giocatore, in realtà, ha la palla tra i piedi per 3 minuti, in media. Quindi la cosa più importante è cosa fai durante gli 87 minuti in cui non hai la palla tra i piedi. La velocità e l’intuizione vengono spesso confuse. Sembro veloce perché inizio a correre prima che gli altri se ne accorgano. Il calcio è uno sport che si gioca con la mente». (cit. Johan Cruijff)
Se Diego è il genio che trasforma la radiolina in una lampada magica dalla quale ascoltare i tuoi desideri avverarsi, Johan è l’artista del calcio dinanzi al quale, che tu sia un difensore deputato a fermarlo o uno spettatore delle sue gesta, svenire, come colto dalla Sindrome di Stendhal dinanzi a un capolavoro, non è vergogna.
Johan e il pallone sono in simbiosi come Michelangelo con tavolozza e pennelli.
Ognuno di loro dipinge la sua Cappella Sistina, il capolavoro.
Johan lo fa in un rettangolo verde, guardando il cielo, così come Michelangelo, sdraiato sui ponteggi e sempre con la testa in su, affrescava le volte del Vaticano.
Mentre Michelangelo narra la Creazione Divina, le pennellate che Johan dipana su un campo di calcio, attraverso le traiettorie dei suoi tiri, dei suoi lanci, attraverso i suoi tocchi, narrano un’ altra parte della storia dell’umanità, quella riguardante il calcio.
Guardarlo, all’epoca, giocare, vederlo muoversi sul terreno di gioco, rende l’idea di come qualcosa di simile sui campi di calcio non abbia avuto più riscontro.
Se Diego è basso e tozzo ed esprime la zampata del ghepardo, se Pelè dal fisico armonico esprime la potenza di una pantera nera, Johan, con quel fisico alto e asciutto, falsamente gracile, un misto di nervi e muscoli cesellati, è una gazzella, imprendibile ai suoi cacciatori.
Quasi senza sforzo apparente, etereo che sia su un prato verde o su un campo reso fangoso dalla pioggia, imprendibile agli assalti degli avversari, Johan sembra librarsi sul campo, tanta è la leggiadra con la quale l’attraversa: un qualcosa che non ha altri esempi nel mondo del calcio.
Lo ha, però, nella danza, in un altro genio assoluto: Rudol’f Chametovič Nureev, con il quale condivide forza, passione e tenacia.
JOHAN DELLE MERAVIGLIE.
Sono gli anni 60, anni di fermento intellettuale e di proteste sociali, di innovazioni scientifiche e rivoluzioni armate, di espressioni artistiche nuove e esperienze psichedeliche libere.
Sono gli anni di Mandela e Luther King, dei Beatles e Che Guevara, delle università in rivolta e di Neil Armstrong e Buzz Aldrin primi uomini a mettere piede sulla Luna.
Quella luna così rotonda e affascinante, come lo è un pallone di calcio per ogni bambino.
E chissà Johan bambino quante volte, dalla finestra della sua casetta a Betondorp, sobborgo di Amsterdam, si è trovato ad osservarla, sognando di raggiungerla e calciarla come un pallone.
Intanto si diverte, come tutti i bambini della sua età, a calciare un pallone reale, anche solo di pezza, nelle strade del suo quartiere, e lo fa dannatamente bene.
«Alla radice di tutto c’è che i ragazzini si devono divertire a giocare a calcio» dirà anno dopo lo stesso Johan.
Tant’è che di lui si accorge l’Ajax, una società da sempre con l’occhio lungo sui giovani talenti.
Certo, il ragazzino, di appena 10 anni, è gracile, con i piedi piatti e una caviglia sformata, ma ci si può lavorare sopra.
Così che, un giorno, tornando dalla solita partitella, Johan finalmente raggiunge quella Luna che ha sempre guardato dalla finestra della sua stanza, rotonda e affascinante come solo un pallone lo può essere per un ragazzino.
L’Ajax lo vuole nelle sue giovanili.
E, 12 anni prima di Armstrong e Aldrin, Johan tocca, anche se solo metaforicamente, la sua Luna personale.
Quello stadio che ha visto sempre da fuori, il De Meer, dove sognava le gesta dei suoi campioni, dove per un po’ di tempo entra solo per qualche lavoretto per la società, affari di giardinaggio, diventerà la sua nuova piazza per giocare; un pallone di cuoio sicuro finalmente, una divisa che non siano camicia e pantaloni da rischiare di gettare tornato a casa e scarpette da calcio reali e non scarponi usurati buoni per tutte le stagioni.
Il tutto sotto gli occhi della madre che è anche inserviente delle pulizie presso lo stadio dell’Ajax e di una schiera nutrita di osservatori e allenatori che non possono non fermarsi a osservare quel piccolo marziano arrivato da un picolo sobborgo.
Il calcio però per lui è molto di più che un solo divertimento, è una passione che gli cresce dentro, che resiste anche quando la sua vita è costellata da dolori tremendi come la morte del padre.
Anzi, in quella disgrazia lui si rafforza ancora di più, segna di più, palleggia ancora meglio, entusiasma gli altri sempre di più.
Johan ha tutto: visione di gioco innata, piede fatato, progressione imprendibile, personalità da vendere, eleganza da Nureev, una tenacia nel migliorarsi e nell’apprendere degna di un adulto.
E intanto quel fisico da gru del cuoco Chichibio (personaggio narrato nel Decameron) si trasforma in una gazzella, agile, veloce, instancabile e potente anche grazie all’allenarsi con sacchetti di zavorra di quattro chili, ciascuno infilato nella giubba della tuta.
E mentre Chichibio, chiamato a rendere conto dal suo padrone della mancanza di una coscia (offerta alla sua spasimante), si prodiga a spiegare che quella gru di gamba ne aveva una sola, Johan invece dipana i dubbi sui suoi piedi piatti e quella caviglia sbilenca diventando un magnifico ambidestro.
Naturale, a questo punto, che a soli 17 anni esordisca in prima squadra, abbastanza semplice che lo faccia con un gol, che non sia un caso lo dimostra che si ripete alla seconda partita.
Se poi trovi sulla tua via un tipo come Rinus Michels, ex attaccante di quelli fango e sudore sulla maglietta, ma con le idee chiare e la capacità di vedere laddove l’occhio non arriva, il gioco è fatto.
Ecco che allora nascono due leggende, l’Ajax e Johan Crujff.
Una squadra di maghi illusionisti che nasconde il pallone per farlo riapparire solo alle spalle del portiere avversario e che ha nel giovane Johan Cruijff , la gru sbilenca diventata gazzella, il centravanti di manovra.
Anzi no, il trequartista.
Perdonatemi, l’ala oppure il regista.
Non è confusione mentale la mia, nossignore!
Come assegnare un ruolo a un calciatore capace di salvare il pallone sulla propria linea di porta o di pressare gli attaccanti avversari con temperamento e carisma, per poi, riconquistata la palla, continuare l’azione tessendo le trame del gioco e andando al tiro nell’area di rigore avversaria?
Come assegnare un ruolo ad un giocatore che di fatto verrà identificato per sempre da un numero particolare sulle spalle, quel 14 che esulava dalla numerazione tradizionale?
Perché Johan, più degli altri suoi compagni, ha un ruolo che è quello di racchiudere tutti gli altri, supportato da una velocità media superiore a quella degli altri e dalla capacità pazzesca di capire, prima di tutti, come si finalizzerà un azione.
Da lì a definirlo il “Profeta del calcio” il passo è breve.
Lui è il geometra dell’ Ajax, il Michelangelo che prima progetta e poi rende possibile, con le sue pennellate, l’affresco, partita per partita, di tante Cappelle Sistine.
Hulshoff, roccioso difensore dei lancieri, dirà di lui:
«Discutevamo di spazio per tutto il tempo. Cruijff spiegava sempre dove i compagni avrebbero dovuto correre, dove rimanere fermi, dove non si sarebbero dovuti muovere. Si trattava di creare spazio ed entrare nello spazio. È una sorta di architettura sul campo. Parlavamo sempre di velocità della palla, spazio e tempo. Dove c’è più spazio? Dov’è il calciatore che ha più tempo a disposizione? È lì che dobbiamo giocare il pallone. Ogni giocatore doveva capire l’intera geometria di tutto il campo e il sistema nel suo complesso »
Johan dipinge, insieme all’Ajax, il suo calcio, definito “totale” negli anni a divenire, pennella assist e goal a profusione, danza etereo sui campi tanto da sembrare uscirne miracolosamente pulito anche nelle giornate dove il fango potrebbe rallentare la sua corsa e favorire quella dei difensori predatori sguinzagliati al suo inseguimento.
E se non può nulla il fango figuratevi la nebbia!
Quella nebbia che cala su Amsterdam in una sera di Coppa Campioni e che Bill Shankly, allenatore del Liverpool, sembra non temere, anzi la sente alleata.
«Siamo sicuri di giocare» dirà all’arbitro «non ci sono condizioni al mondo che possano impedirci di vincere contro degli olandesi»
Al mondo, però, c’è un solo Cruijff e gioca nell’Ajax e corre imprendibile quella sera nella nebbia: De Groof, due volte Nuninga, Groot e lo stesso Johan a sigillare uno storico 5 a 1 per i lancieri.
Al ritorno, sempre per dimostrare che non sia stato un caso, Johan infila altre due volte i satanassi britannici.
L’Ajax non vince quella Coppa Campioni, ma capisce di poterlo fare, almeno tre volte consecutivamente (1971, ’72 e ’73, un record), e sfiorarla un’altra (nel 1969, finale persa col Milan), insieme a un dominio assoluto nel proprio paese.
Ai titoli di squadra la gazzella Johan aggiunge quelli personali, tre Palloni d’Oro tra il 1971 e il 1974, due titoli di capocannoniere.
La Luna è oramai raggiunta da un pezzo e conquistata in ogni suo anfratto, in ogni suo cratere.
Non ha più, per Johan, quel “ Dark Side of the Moon” cantanto, nel 1973, dai Pink Floyd.
Ora c’è solo un mondo da conquistare, anzi un Mondiale.
L’ARANCIA MECCANICA
La nazionale olandese non poteva non ricalcare una squadra come l’Ajax e i parallelismi con il famoso film di Stanely Kubrick, un concentrato di violenza e sopraffazione, applicati ora al modo di stare in campo di 11 uomini e di “sopraffare” l’avversario, vengono su spontanei.
Chi ha visto giocare quella nazionale più volte avrà ricontato i giocatori in campo, convinto che gli olandesi fossero di più, sempre presenti in ogni angolo del campo, con Johan Michelangelo ad ammirare quanto progettato, la Cappella Sistina che sta venendo su.
Quella nazionale stupisce tutti con il suo calcio moderno, annichilendo gli avversari sul punto di vista tecnico, tattico e fisico.
Solo la sfortuna di giocare un mondiale in Germania e la finale contro il paese ospitante non permetterà agli orange di issarsi sul tetto del mondo, pur rimanendo nella leggenda.
Non bastò un minuto, il primo di gioco, dove l’Olanda condensò tutto il suo calcio, e Crujiff tutta la sua geometria, per portarsi a casa il trofeo.
Un minuto nel quale la Germania non toccò palla se non per rimetterla a centrocampo.
Magia, pura!
Sembra facile, detta con le parole del profeta del calcio:
«Il calcio consiste fondamentalmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare. Se non la puoi controllare, tantomeno la puoi passare.»
Stavolta, però, la magia, anche per via della cocente delusione patita in quella finale e nonostante un secondo posto ripetuto ai Mondiali seguenti in Argentina, dura poco e quella nazionale raccoglie molto meno di quanto era nelle sue possibilità
E il motivo è semplice.
Quella squadra ricalca l’Ajax ma non è l’Ajax.
Ha Cruijff ma non ha solo Cruijff.
Perché, se anche avesse voluto, Rinus Michels, ex santone dell’Ajax ora passato alla guida della nazionale orange, non poteva fare a meno di integrare la macchina tritatutto dei lancieri con giocatori di spicco di altri club.
E non tutti sono in sintonia con il Profeta del calcio, anzi, diciamo pure che si mandano allegramente a quel paese ad ogni buona occasione.
Perchè poi, se la vogliamo dirla tutta, Johan con Michelangelo non condivide solo il genio dell’artista, ma anche alcuni difetti non di secondo conto: è misantropo, irascibile, in un certo qual modo avaro (o quanto meno attento ai suoi affari), ha un carattere spigoloso.
Lo dimostra in nazionale quasi subito.
Johan esordisce ad appena 19 anni con la nazionale maggiore, contro l’Ungheria, e per non sfatare la tradizione va subito in rete.
Nella seconda, contro la Cecoslovacchia, si fa cacciare per un pugno all’arbitro.
E così, vuoi per una fascia di capitano all’Ajax negata che lo farà trasferire al Barcellona, vuoi per una striscia strappata dalla maglia e dai pantaloncini della nazionale, perché sponsorizzata dall’Adidas mentre lui era uomo immagine Puma, vuoi le liti con elementi come Keizer, la sua avventura in orange si conclude prima del tempo, fra addii annunciati e polemiche relative a presunti problemi di sicurezza personale che gli impediranno di accettare la convocazione per i mondiali in Argentina.
JOHAN NUREEV SULLE RAMBLAS
Nell’anno dei mondiali in Germania, allettato da un ricco contratto, Johan lascia la casa madre, i lancieri olandesi, e si trasferisce in Catalogna, al Barcellona.
Lascia l’Ajax con il bottino di 6 campionati vinti, 5 Coppe nazionali, 3 Coppe dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale, una Supercoppa UEFA.
Lascia stupito come il suo passaggio all’epoca sia costato più ai Lloyd’s di Londra per assicurare le sue gambe (2 miliardi) che al club catalano per assicurarsi le sue prestazioni (1 miliardo).
In realtà, sulle tracce del Profeta del calcio c’era anche il Real Madrid , ma a Barcellona siede in panchina, dal 1971, il suo mentore: Rinus Michels.
Il Barcellona è, allora, lontano parente di quello di oggi, squadra gloriosa sì ma non eccelsa.
Eppure Johan, pur privato del suo numero scaramantico, il 14 ( in Spagna non era permessa una numerazione diversa dall’1 all’11 per la formazione iniziale), non si deprime.
Anzi accetta la sfida e dipinge la sua Cappella Sistina iberica, nonostante arrivi a campionato iniziato (segna come al solito al debutto, stavolta una doppietta) e con una squadra al penultimo posto.
E lo fa sotto il segno del numero 14, quel numero di maglia negato.
Infatti sono 14 gli anni dai quali manca il titolo nella città catalana.
E che ora ritorna blaugrana grazie a Johan e alle sue pennellate, mitica quella di tacco, in volo come un Nureev in un Lago dei Cigni, contro l’Atletico Madrid!
E c’è il tempo di rifilare una cinquina al Bernabeu agli odiati rivali del Real Madrid come era capitato al Liverpool anni prima.
Di quella partita Cruijff è assoluto mattatore: oltre a due assist, la rete del secondo vantaggio.
E’ una perla, il dito di Dio rivolto all’essere umano di Michelangelo portato nel calcio.
La partita viaggia verso il 39° quando Cruijff, ricevuta palla al limite dell’area, si districa in dribbling fra tre avversari per poi anticipare con un tocco di sinistro il portiere avversario.
Non vincerà molto altro, una Coppa di Spagna e un Pallone d’Oro, il terzo, nel 1974, ma rimarrà indelebile nella memoria dei tifosi catalani.
Tornerà, dopo una puntata danarosa in USA nel soccer, all’Ajax , vincendo altri due titoli, per poi andarsene, per dispetto, al Feyernoord e vincere , sempre per dispetto all’Ajax che lo dava per finito, un altro titolo.
Ci sarà il tempo di far sognare i tifosi del Milan, che lo applaudiranno per 45 minuti, durante il Mundialito per club del 1981, con la maglia rossonera.
«E’ stato un onore per me indossare i colori del Milan» dirà Cruijff, ben sapendo che il sogno rimarrà tale.
IL CALCIO A 360°
Quello che differisce Johan da Diego, da Pelè e da tanti altri è che l’olandese il mondo del calcio lo ha attraversato a 360°, in tutte le sfaccettature, da ragazzino che sbrigava qualche lavoretto a dirigente, passando per calciatore.
E in ognuna di queste fasi lo ha fatto sempre da protagonista.
Capace di fare 74 goal nelle giovanili nell’anno della morte del padre e nel frattempo pulire le aiuole del centro sportivo.
Capace di portare sul tetto del mondo le squadre di club e quasi riuscirci con la nazionale da calciatore.
Capace di insegnare calcio e contemporaneamente di vincere da allenatore.
All’Ajax incomincia infatti ad allenare, porta in prima squadra un certo Marco Van Basten, vince due coppe nazionali e una Coppa delle Coppe.
E’, però, al Barcellona che riscrive la storia del club da allenatore, rendendolo forse, per primo, ciò che è oggi.
Sotto gli anni della sua gestione i catalani ottengono risultati mai raggiunti nel corso della loro storia, vincendo per quattro volte consecutive la Liga, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe e arrivando al trofeo tanto agognato, la Coppa dei Campioni, vinta battendo la Sampdoria.
Un’altra italiana, il Milan, invece gli impedirà di fare il bis nella stessa competizione.
Lancerà giocatori che rimarranno storia del club blaugrana, come Guardiola, Amor, Bakero.
Johan l’artista, Johan il Profeta, ci ha lasciati il 4 marzo di quattro anni fa, sconfitto nella sua ultima partita, quella contro un tumore ai polmoni.
Il Barcellona di oggi deve tutto al Cruijff allenatore.
Il calcio di tutti i tempi deve tanto al Cruijff calciatore, allenatore e uomo.
Il Profeta del calcio che dipingeva parabole come Michelangelo e danzava sull’erba come Nureev.