Tempi duri, per tutti e tutto, quelli del Covid 19.
Figurarsi per il calcio.
Laddove si sia ricominciato a giocare, cercare della normalità, in quella rappresentazione tra il grottesco e la farsa ipocrita, è impresa da Howard Carter, l’uomo che scoprì la tomba di Tutankhamon.
Calciatori che non si possono stringere la mano o esultare per un gol se non mantenendo la distanza , nessuna protesta con l’arbitro.
Salvo poi prendersi a calci, abbracci e gomitate in area per difendere la propria porta, tackle a metà campo per intercettare l’avversario, corrersi dietro spalla a spalla in un fantastico connubio di sudore e e fiato condivisi.
Oppure la fantastica idea di sostituire i tifosi con cartonati e i cori da stadio ( pure il classico “arbitro cornuto”?) con registrazioni.
Questo, per me non è calcio, è un semplice business.
E questa considerazione nasce da un malessere mio personale pre Covid, dove il soldo da tempo soverchia la passione, il colore delle banconote quelle delle maglie (ce ne sono alcune orrende, cromaticamente e per r tradizione).
Io sono abituato ad un altro calcio, mi dispiace.
Un calcio che conservava ancora una poesia, la capacità di essere un sogno a occhi aperti.
Un rituale magico che si esplicava domenicalmente con i suoi attori: presidenti, allenatori, giocatori, giornalisti e tifosi.
IL MIO CALCIO ERA POESIA
Era quello delle radioline la domenica sintonizzate tutte allo stesso orario, con l’eccitazione dei radiocronisti che si interrompevano a vicenda («Scusa Ciotti, scusa Ameri») per un gol o un rigore e te che aspettavi, trepidante, quei pochi secondi che ti dividevano dal capire se era una gioia o una delusione.
Era il calcio dove aspettavi “90° minuto” per vedere i gol, l’eleganza di Paolo Valenti nel parlare di calcio, l’arguta ironia di Beppe Viola, Tonino Carino che aveva la mobilità del robot di Guerre Stellari C-3PO, Luigi Necco che subì un attentato prima di una partita.
Era il calcio dove le discussioni sui presunti torti arbitrali iniziavano al domenica sera con la moviola di Sassi e finivano allo spegnere delle luci in studio.
Lontano da diritti tv e spezzettamenti vari per i quali oggi devi avere una guida tv per capire dove, come e quando gioca la tua squadra.
Il mio calcio era poesia.
Era quello dei presidenti che si propiziavano la fortuna spargendo sale sul campo (Anconetani, Pisa) o indossando calzini rossi (Rozzi, Ascoli).
Presidenti (Sibilia, Avellino) che il giorno nel quale un Beniamino Vignola reclamò un premio salvezza, ti assestavano un ceffone perché «Non vi pago per non retrocedere».
Presidenti (Boniperti e Viola) che si regalavano righelli d’oro e battute al vetriolo per un gol di Turone.
Presidenti (Massimino, Catania) che non conoscevano il latino e volevano acquistare «amalgama» oppure «Quel portiere non ha niente di paranormale: è un portiere che para normale»
Il mio calcio era poesia.
Era il calcio delle formazioni sciorinate a memoria («Zoff, Gentile, Cabrini….» che fosse la Juve o la Nazionale era uguale, ma valeva anche per le altre squadre) perché legato a valori non solo commerciali da sliding doors, ma di appartenenza.
Il mio calcio era quello dei giocatori legati a una maglia, a scelte di vita oltre il guadagno e la gloria, dove un lombardo può diventare sardo fino al midollo oppure romanista a vita.
Perché amavi giocatori al di là dei colori indossati e piangevi per un Re Cecconi, Curi o Scirea perché erano i tuoi supereroi della domenica, ma uomini normalissimi per il resto della settimana.
Il mio calcio permettava di sognare un Diego Armando Maradona al Napoli e Zico all’Udinese
Il mio calcio era poesia.
Perchè in campo aveva allenatori che erano prima padri di famiglia, educatori piuttosto che spot pubblicitari di se stessi.
Ma sopratutto uomini semplici, con manie e debolezze tutte umane.
Liedholm con le sue proverbiali iperbole ( da «Strukelj è più forte jogadore di mondo» a «Gli schemi sono belli in allenamento: senza avversari riescono tutti») accompagnate anche da riti scaramantici.
I fischi di Trapattoni e gli improperi di Bersellini, le dita ingiallite dal fumo del Petisso Pesaola, la pipa di Bearzot
Il mio calcio era poesia.
Perche legato a simboli come i numeri di maglia dall’1 all’11 (e l’8 di un portiere, Jongbloed o il 14 di un fuoriclasse, Cruiyff, erano le eccezioni che rendevano bella la regola).
Era legato a colori (belli, vivi, tradizionali e non coperti da una marea di scritte pubblicitarie) come quelle delle maglie delle squadre o, persino, degli arbitri, sempre nere con quel blu ai calzettoni che te li identificavano come autorità in campo e non come tristi corvi.
Era legato a parole e vocaboli, dove le gli esterni alti si chiamavano ali, quelli bassi terzini, le ripartenze contropiedi, la palla era «passata» e mi andava bene anche la parola «catenaccio» che evocava eroiche resistenze a fortini assediati piuttosto che Federico Moccia e lampioni.
Il mio calcio era poesia.
Perché gli stadi erano gremiti, ritrovo domenicale di famiglie, luoghi dove rinfrancarsi da una settimana in fabbrica, le curve erano colorate e non arrabbiate, gli sfottò semplici e ironici e non scudi di odio.
Perché i Vincenzo Paparelli erano, purtroppo, ancora una tragica casualità piuttosto che un eventuale probabilità e non avevi bisogno di essere schedato per entrarvi
Il mio calcio era poesia.
Perché, in fin dei conti, mi ha regalato anche questa profonda nostalgia.