“Dietro un paio di occhi, c’è sempre una storia. Migliaia di pagine scritte. Alcune, stracciate dal dolore, altre, colorate da sogni e speranze.”(Luce Argentea)
Estate del 1990, l’Italia intera corre dietro a un sogno.
Si chiama Campionato Mondiale di Calcio, Italia ’90, per l’appunto.
E’ passato più di mezzo secolo dall’ultima kermesse giocata e vinta in Italia, allora chiamata Coppa Rimet, quella giocata sul suolo patrio, sotto un regime che ci avrebbe portato in guerra pochi anni dopo.
Sono passati solo 8 anni dal fantastico triplice grido di Nando Martellini in Spagna, solo 4 anni dal disastro annunciato di Mexico ’86.
Quell’estate del ’90 inizia finalmente il rito felice che dall’82 milioni di italiani stava aspettando.
Il mondiale dell’86 è stato vissuto come una tappa di avvicinamento, rimosso come il ricordo di un infausto incidente di percorso.
Le partite degli azzurri,ora, dovranno essere solo un continuo irrorare di felicità.
C’è grande fervore, grande attesa.
Nel cuore di 60 milioni di italiani la speranza, piu’ che la certezza, che questo mondiale sia nostro, che la coppa, dopo il 1970 disegnata e realizzata da un altro italiano, Silvio Gazzaniga, rimanga sul suolo patrio.
L’Italia che ospita i Mondiali del ’90 è un Paese pieno di energia, che vive un grande momento di prosperità economica e sociale.
C’è la Milano da bere e Tropea da godere.
Il cinema italiano, con Nuovo Cinema Paradiso e Mediterraneo, si prende due Oscar.
Il Milan si porta a casa la Coppa Campioni, la Sampdoria la Coppa delle Coppe e Juventus e Fiorentina si contendono la Coppa Uefa.
La moda è la protagonista assoluta della cerimonia di apertura a San Siro, il nostro vero inno diventa“Un’estate italiana”, cantata da Gianna Nannini e Edoardo Bennato.
L’atmosfera è così carica di positività, di magia, che persino il titolo della canzone verrà poi ricordato come “Notti Magiche”.
Sembra già tutto scritto, un destino dal quale non puoi, e non vuoi, sottrarti.
Le bandiere azzurre sventolano dai balconi e ci si sente già campioni alla faccia della scaramanzia, in attesa che la festa iniza ma anche finisca.
Che gli ospiti, necessari ma invadenti,vadano a casa uno ad uno, e tu rimani solo a festeggiare il quarto titolo mondiale.
Ci sono Maradona e Gullit, Van Basten e Careca, Voeller e Matthaus e tanti altri, compreso Oman Biyik del Cameroun che ci regala la prima sorpresa, battendo l’Argentina campione del mondo nella partita inaugurale.
Sembra un segno del destino.
Si rivelerà invece una beffa.
Ci sono sopratutto i tuoi eroi, vestiti d’azzurro.
Da Zenga a Ferri, da Vialli a Mancini, da Giannini a Baggio e via dicendo, fino ad un piccolo ragazzo del sud, baricentro basso e fisico tarchiato, la faccia scura di chi nasce al sole.
E’ aggregato alla comitiva in virtu’ del suo primo campionato pazzesco ( 15 reti in 30 partite) in serie A con la maglia della Juventus dopo una carriera svolta sui campi di serie B e C col Messina.
Il nome? Salvatore Schillaci, conosciuto come Totò.
«Il nome Totò me l’ha dato la tifoseria del Messina. All’inizio non mi piaceva. Salvatore era troppo lungo. Mia madre mi chiama Salvo, mio padre Totò»
Sembra una favola già essere solo lì, per il piccolo Totò, chiuso da una batteria di attaccanti che risponde al nome di Vialli, Mancini, Serena, Baggio e Carnevale.
E invece la magia è solo all’inizio.
GLI OCCHI, QUEGLI OCCHI.
Totò è nato a Palermo, una città bellissima e dannata, crocevia di cultura e di perdizione.
Bellezza e illegalità vanno a braccetto in una terra martoriata da mille contraddizioni.
Totò vive, con la dignitosa miseria della sua famiglia, in un quartiere povero, il Cep,dove è dannatamente facile perdersi e cadere nelle mani sbagliate, in un gorgo di sopraffazione e violenza.
Devi avere forza d’animo e un coraggio dannato per tirarti fuori da quel mono, devi sentirti capace di sfidare il pregiudizio, che ti vuole per nascita sottomesso, per correre dietro al sogno di calciare un pallone mentre ripari ruote alle auto in un officina.
Devi avere gli occhi della tigre, insomma.
E Totò li ha, eccome!
«Ho sempre avuto solo il calcio in testa ». confesserà.
Il suo calcio, quello che lo ha portato in serie A e in Nazionale, è un insieme di vari istinti animaleschi; dalla voracità predatoria dello squalo in aerea avversaria, a intuizione frenetiche e colpi istintivi come le zampate di una tigre, oppure bordate come fulmini che squarciano le domeniche calcistiche.
Da Scoglio a Zeman fino a Zoff, dalla B alla A lui segna sempre, famelico, mai sazio, quasi a “sentire” che, dovesse mollare anche un solo attimo, potrebbe ricadere in quel gorgo maledetto della sua infanzia.
Schillaci esordisce in Nazionale nell’ultima amichevole prima del Mondiale, con la Svizzera, sembra il contentino per l’ultimo arrivato.
E intanto arriva finalmente il Mondiale, per lui è già tanto essere lì, al meno questo professa ai giornalisti.
Lo dice, però a capo chino, nascondendo quegli occhi che milioni di italiani impareranno a conoscere, ad amare, ad aspettare come una pozione magica che risolve le tue ansie.
A Roma gli Azzurri affrontano la non irresistibile Austria ma è una sofferenza: attacchi vani finchè Vicini, il Ct, non decide di cambiare qualcosa in attacco.
Non Baggio, non Mancini, non Serena per sostituire un solo generoso Carnevale.
Dalla panchina si alza e si prepara quel ragazzo piccolo dal baricentro basso, Totò da Palermo.
Sembra un azzardo.
Appena calca il terreno di gioco è un’esplosione di affetto da parte del pubblico che lui ricambia con una scarica di adrenalina pura.
Corre e rincorre gli avversari come un forsennato.
Ha, sopratutto gli occhi della tigre, o di uno spiritato, un impossessato da uno spirito folle.
Magari da uno “jiin”, spirito della mitologia araba, una cultura che tanto ha inondato la Sicilia nei secoli passati.
Per chi, come chi sta scrivendo, visse quei momenti, anche solo alla televisione, è impossibile dimenticare quegli occhi spiritati di Totò.
Sembra drogato, sotto effetto di sostanze allucinogene.
Sono solo, invece, gli occhi di un ragazzino che prende a calci il destino infame, che chiedono di sedersi alla mensa di chi vuole decidere il proprio futuro.
Occhi che reclamano un rigore e che esplodono dopo la gioia del gol.
Il primo in nazionale, il primo ai Mondiali.
L’inizio di un rito catartico che si ripete, puntuale, con Cecoslovacchia, Uruguay, Irlanda, Argentina e Inghilterra.
Un’orgia sabbatica tra pubblico e giocatore interrotta solo da dolore della semifinale persa contro l’Argentina di Diego ai rigori.
Alla fine del torneo l’Italia arriverà al terzo posto e Totò Schillaci vincerà il titolo di capocannoniere con 6 reti.
Come Pablito nell’82, ma senza alzare quella coppa.
Il tragitto da “signor nessuno” a capocannoniere dei Mondiali è stato un lampo, tutto nel giro di poche settimane: una bella favola durata forse troppo poco.
LA FINE DELLA MAGIA
Le notti magiche terminano mestamente, per 60 milioni di italiani.
E anche per lui sembra finire la magia.
Poche altre presenze, un altro solo gol in nazionale, la Juventus che lo cederà, dopo un paio d’anni, all’Inter, per poi finire la carriera in Giappone dove diventerà Totò-san.
Quel gorgo cercherà di inghiottirlo, pretende ciò che egli era stato negato in infanzia.
Guai giudiziari per frasi infelici ( «Ti faccio sparare» al bolognese Poli), la testata a Baggio negli spogliatoi, e guai familiari (la moglie Rita Bonaccorso, ammetterà di averlo tradito con Lentini, accorrendo al capezzale del giocatore milanista coinvolto in un tragico incidente d’auto).
Per un uomo del Sud un affronto terribile, carne gettata in pasto ai leoni.
Anche i tifosi sembrano dimenticare quei suoi occhi: cori razzisti lo seguono in tutta Italia, persino in quel meridione dove è nato.
Schillaci al calcio ha dato molto, ha vinto poco, una dannazione per molti.
IL NUOVO SCHILLACI
Scompare dalle scene, passa dalla magia delle notti magiche al tetro sortilegio dell’oblio.
Finchè un giorno lo stesso Totò non ha il coraggio di rivedersi in uno specchio, di cercare di nuovo quella luce famelica nei suoi occhi.
E allora cambia vita, partendo dal look, anche attraverso un trapianto dei capelli.
Apre una scuola calcio a Palermo, una in Giappone, diventa opinionista e partecipa a vari format tv dove dimostra la sua umanità e la sua umiltà.
Riconquista quel pubblico che lo ha amato per una breve estate.
Oggi Totò è un un uomo che ha passato il mezzo secolo, felice con se stesso.
Sa di aver allontanato per sempre il gorgo maledetto da se stesso, aiuta altri ragazzi a non caderci.
Lo fa con la sua solita umiltà.
A capo basso, magari, quasi timoroso di voler sembrare quello che non è mai stato se non in area di rigore, un arrogante.
State certi, però, che nei suoi occhi, anche solo per un attimo, potrete sempre ritrovarvi quella scintilla magica, quell’estasi spiritata.
Gli occhi della tigre li hai per sempre.