Il buio, sulle terre della Mancia, è arrivato subitaneo e improvviso, come spesso accade.
La Mancia, già, con quel nome, derivante dall’ arabo Al-Mansha ( “terra secca”), che richiama echi di una terra di siccità.
Le pianure brulle, assolate di giorno, sono mute e immutabili testimonianze di quanto quel nome sia veritiero, nonostante il prezioso lavoro di costruzione di canali di irrigazione da parte dei conquistatori arabi, in un tempo ove i barbari eravamo noi, immersi in confusi e menzogneri dogmi religiosi.
Quelle stesse pianure che, allorché scende quest’improvvisa oscurità, sembrano inghiottite dalla bocca di un vorace mostro.
Il fuoco di un bivacco rischiara il buio della notte e i due uomini vicino ad esso sembrano due figure a metà tra il surreale e il caricaturale.
L’uno, sulla cinquantina, alto e allampanato, vestito di corazza e armatura a mo’ di cavaliere medievale.
L’altro, basso e grassoccio, barba incolta e sguardo non proprio sveglio.
L’uomo in armatura sbracia il fuoco con l’aiuto di un bastone.
La fiamma arde di nuova vita, come a ribellarsi da una immeritata sferzata di scudiscio.
«Dormi pure, mio fidato scudiero» pronuncia il cavaliere a capo chino «veglierò io sul tuo sonno affinché predoni in carne o mostri figli della notte non ci arrechino pericolo».
Il tipo grassottello per tutta risposta si alza, gira le spalle al suo compagno e al fuoco, scalcia lontano uno dei tanti ciottoli di pietrisco che formano quelle brulle terre.
«Perdonatemi la schiettezza, Don Alonso. Ma è un rospo che da troppo tempo ho dentro, e devo sputarlo, con o senza il suo consenso»
Don Alonso compie un cenno d’assenso col capo e con un gesto della mano invita il suo scudiero a continuare.
«Ma certo, mio buon Sancho. Abbiamo vissuto così tante avventure e sfidato la sorte in cotanta quantità che, pur rimanendo cavaliere e scudiero, tra noi non c’è segreto che si possa celare o parola alcuna che non si debba pronunciare»
Sancho sbuffa spazientito.
«Avventure, sorte, pericoli. Ecco, proprio di questo volevo parlarvi, Don Alonso. Ditemi, ci credete veramente?»
L’ allampanato cavaliere lo guarda frastornato.
«Ma..mio caro Sancho..tu stesso, con i tuoi occhi, hai potuto vedere le orde arabe, i giganti..»
Sancho lo ferma con un gesto della mano.
«Giganti, orde arabe, demoni! Ancora con questa storia. Oppure vogliamo dirci il vero e parlare di mulini a vento, greggi di pecore e burattini?»
Don Alonso tenta una timida protesta.
«Ma, mio scudiero, vuoi tu…»
«Per favore, mio nobile padrone, basta con i vaneggiamenti! Vogliamo parlare della sua dama, tal Dulcinea che altro non è che una contadinotta la quale la sua massima grazia è concedersi a chiunque passi per il suo fienile?»
Il cavaliere è inebetito, incapace di muovere una sola obiezione, fosse anche solo per difendere l’onore della sua dama.
Che forse un inaspettato tarlo incominci a far capolino nella sua mente?
Oppure è conscio che non può più mentire a se stesso, non più negare quello che ha sempre saputo?
Sancho, l’umile, ignorante scudiero, lo incalza, lo stringe, come un torero usa con il toro nell’arena, all’angolo della realtà, usa le parole alla stregua di un picador che conficca la sua “vara de picar” tra i muscoli del collo della bestia da sfinire.
Aspetta, Sancho, di diventare torero e terminare vittorioso quella corrida verbale, usando l’argomento decisivo come spadino per “matare” le ultime certezze del maturo cavaliere che ha di fronte.
«Ma quale isola e castello come premio! Di quale cavalleria errante si ciancia, Don Alonso? Perché accettare questa buffonata passivamente, perché barattare la nostra dignità per la gloria di un imbrattatore di inchiostro e per il divertimento di chi lo legge?»
Una pausa, un sospiro, poi la corrida riprende, spietata, disumana.
«Lei, lo squilibrato folle. Io, il contadino ignorante. Personaggi creati ad arte per un eterno dileggio che si perpetra in ogni singola copia esistente di questo maledetto libro. Ogni volta che qualcuno lo apre si dipanano le ore, i giorni, i mesi, gli anni nel quale la sua follia e il mio essere mentecatto danno ben mostra di loro. Quando lo chiudono scende su di noi l’oblio di queste notti dove possiamo essere noi stessi, indipendenti dalla penna che ci ha creato, liberi da un copione già scritto. Non siamo più macchie di inchiostro ma spiriti con una coscienza, chiusi in una prigione fatta di cellulosa, in un mondo creato da una mano a noi ostile, a suo uso e consumo».
Sancho ora è dinanzi all’anziano cavaliere, che rimane seduto, il capo chino, con le braccia ossute poggiate sulle ginocchia.
«Ora» continua Sancho «la domanda che le pongo, Don Alonso, è questa: lei crede veramente di essere un cavaliere errante e in giganti, damigelle in pericolo, mostri e streghe?»
Don Alonso alza la testa, guarda lo scudiero negli occhi.
Le fiamme del bivacco, la notte buia, quei discorsi mai fatti prima.
Dov’è il confine fra immaginario e realtà?
È surreale pensare che dei personaggi immaginari parlino di se stessi come persone reali.
Che siano burattini forzati ma immaginari quando viene aperto il libro, e diventino più reali con una coscienza propria quando il libro viene chiuso.
Eppure sono lì, creature di un creatore che ha sostituito il soffio divino con penna, calamaio e inchiostro.
La sua replica, tremolante come un bambino che muove i primi passi.
«Noi seguiamo un copione, siamo personaggi..»
«Don Alonso, non tergiversi: lei crede in ciò che fa e ciò che crede di essere?»
«No, non ci credo»
“E allora perché ogni volta che qualcuno chiude questo libro, che la notte cade su di noi con il buio dell’oblio, lei continua a dirmi che veglierà su di me contro mostri e predoni? Perché non ammette a se stesso di essere una semplice macchia di inchiostro priva di volontà e succube della gloria cercata da chi ci ha creato?»
Potrebbe essere uno strano scherzo di giochi d’ombra, un casuale riflesso delle fiamme del bivacco.
Eppure, se lo si potesse osservare, a nessuno sfuggirebbe quell’ardore che ora dà nuova vita agli occhi, prima cerulei e spenti, del cavaliere errante.
Quegli occhi Sancho li ha già conosciuti.
Quando i mulini a vento diventavano giganti, i greggi di pecore armate di infedeli, osterie per castelli.
Ora quel fuoco è divampato, negli occhi, in maniera ancora più forte.
Sancho capisce che non ha fatto a tempo a diventare torero per assestare il colpo letale al toro.
Che, come picador, è stato forse disarcionato da un toro ferito sì, ma ancora capace di sollevare la testa al di sopra della linea del dorso nonostante le picche conficcate.
Don Alonso si è alzato, dritto nella sua sgangherata armatura, più possente di quanto possa far apparire quel suo ossuto corpo.
«Mio caro vecchio Sancho, mio fido amico e compagno, come dici tu, di dileggio altrui. Oh, certo che so quel che sono. Sono un personaggio da libro, come te. C’è chi nasce eroe, chi bandito, chi vendicatore e chi, come noi, folli. C’è chi fa innamorare, chi fa piangere, e chi come noi sorridere».
Una pausa, per essere sicuro di esser seguito nel filo invisibile delle parole.
«Sai cosa ci accomuna, con tanti nostri fratelli di libro pur diversi? Non è solo l’essere un glifo di inchiostro su una pagina bianca. No, Sancho, non è solo questo. In comune abbiamo molto di più: l’immortalità. E questo nemmeno il nostro creatore poteva aspettarselo. Lui ha trovato la gloria attraverso di noi, noi esistiamo grazie a lui. Noi come altri, però, siamo sopravvissuti ai nostri creatori. E ora loro vivono riflessi della nostra gloria»
«Non la seguo, Don Alonso»
«Eppure è semplice, mio buon scudiero. Il mio nome, il tuo, quello di Lancilotto o di Achab sono oramai famosi in tutto il mondo. Spesso, però, si ignora, si dimentica il nome di chi ci ha creato. Sentirai dire “Chi, Cervantes? Ah sì, quello di Don Chisciotte e Sancho Panza” e non il contrario. Noi siamo sopravvissuti alla loro morte e loro vivono solo attraverso noi»
Don Chisciotte, perché questo è il nome con il quale è stato, è e sarà conosciuto Don Alonso Quijano, si avvicina al suo fido scudiero Sancho Panza, gli pone le mani sulle spalle.
«Non essere astioso, Sancho. Non siamo solo macchie d’inchiostro alla mercé dei pruriti dei nostri creatori. Siamo sogno, emozione, gioia e dolore, lacrime e risate per chi ci legge. Siamo quello che siamo perché creati per ottenere tale scopo. E il mio essere folle e il tuo essere sempliciotto non sono marchi di infamia, ma la nostra impronta per esistere e diventare immortali. Ecco perché, ad ogni chiusura di questo libro io tornerò a vegliare sul tuo sonno, contro mostri e predoni. Perché rinunciarci, oltretutto senza beneficio per alcuno?»
Don Chisciotte si volta per attizzare il fuoco.
Sancho non può che ammettere che, in fin dei conti, il cavaliere ha ragione.
Ma ha ancora una picca da conficcare, prima di darla vinta al toro.
Un sonoro calcio raggiunge le terga di Don Chisciotte, che ruzzola per terra con gran clanglore della sua armatura.
Frastornato, rimane a terra a gambe larghe e guarda stupito il suo scudiero.
«Sancho, cosa ti è passato per la testa?»
Sancho si sistema a terra, tra le coperte da viaggio, pronto a dormire.
«Ha ragione, signor padrone su tutto tranne sulla mancanza di benefici per qualcuno. Io ora mi sento soddisfatto e la avverto: da domani ogni volta che apriranno questo dannato libro io tornerò a farmi bastonare da pastori, osti e contadini per le sue follie. Ma chiuso il libro, calate le tenebre, mi riterrò libero di prenderla a calci. Buonanotte»