(Questo testo fa parte di una raccolta di brevi racconti che vorrei, se ho la possibilità, racchiudere in un antologia e che hanno come tema la guerra e i suoi aspetti,con il fenomeno dell’immigrazione che è uno di essi. Ciò che io chiamo “effetto collaterale)
“La nozione di immigrato è un errore. L’immigrato è qualcuno che fa un viaggio regolare da un punto a un altro, come l’uccello migratore, appunto. Qui invece è gente che fugge dai massacri. Né sono rifugiati, perché un rifugio lo stanno cercando. Bisogna cercare una parola che non menta. Una volta che la si sarà trovata, si sarà già fatto un grande progresso.”
(Michel Butor)
Ogni giorno centinaia di persone si mettono in viaggio per cercare di raggiungere l’Europa. Sono vittime di guerre, dittature, mancanza di opportunità economiche e cambiamenti climatici.
Sognano una vita migliore, ma spesso finiscono tra le mani dei trafficanti o in centri di detenzione.
Uomini e donne che, nella maggior parte, diventano schiavi; pochi di loro uomini liberi.
Molti diventano semplicemente carne morta, tra le dune di un deserto o nei fondali di un mare.
Immensi ossari dell’ipocrisia umana.
Migrantes!
L’ascoltare ancora lo sciabordio delle onde contro lo scafo è ciò che mi fa capire di essere ancora viva.
Gli occhi fanno fatica ad aprirsi, bruciati dal gelo della notte e dal sole del giorno.
Labbra riarse, all’estenuante ricerca per un sollievo di un sorso d’acqua che non sia quella del mare.
Membra intorpidite dal dover condividere, e difendere al contempo, quel misero regno che è il mio spazio, assediato da (quanti? Cento..duecento?) individui che hanno lo stesso mio scopo, se non addirittura quello di usurpare ciò che è mio.
Di Kismeth
Ah, ecco una altra cosa che mi fa sentire viva.
Ricordo ancora il mio nome!
Kismeth.
E intorno a me ho forse Badrani, oppure Youssa,oppure Menadi, chi lo sa!
Mi dolgono troppo gli occhi per aprirli.
E forse non ho nemmeno tanta voglia di guardare.
Che strano, fuggire dalla mia terra dove non avevo niente, ma ero forse più libera, per ritrovarmi sballottata sul mare difendendo meno di un metro quadrato, da prigioniera!
È questa la vita alla quale avevo agognato?
E’ questo ciò che mi aspetta?
La vita, la morte.
Fuggire dalla morte per cercare la vita.
Cercare la vita trovando la morte.
Cadere in un oblio fra l’una e l’altra.
Fuggire dalla fame.
O dalla guerra.
Come se ci fosse differenza!
Come se laddove manchi il pane per tutti, non ci sia una guerra per accaparrarselo.
Come se laddove ci sia solo una pozza d’acqua per dissetarsi non ci sia un campo di battaglia per impadronirsene.
Una guerra fra poveri che non fa notizia.
Perché senza aerei che bombardano, senza esplosioni che distruggono, senza armi che si vendano.
Ma è pur sempre una guerra.
E il mio corpo ne porta i segni.
Devastanti.
I miei piedi piagati parlano del pietrisco del deserto attraversato.
La mia schiena dolente parla delle ore interminabili trascorse in un bagagliaio di auto.
La mia vagina, la mia bocca, se potessero raccontarlo, narrerebbero degli stupri e delle umiliazioni subite.
E tutto questo per cosa?
Meno di un metro quadrato su un lurido barcone, stipata come gramigna alla rinfusa, in balia delle onde del mare.
Quel mare che non ho mai attraversato prima, io che non so nemmeno nuotare.
E che, dalla spiaggia, mi sembrava amico, sinonimo di libertà verso una nuova vita.
Con le sue onde spumeggianti che venivano a rompersi sulla battigia e che, nel ritornare verso di esso, sembravano invitarmi a seguirlo, illudendomi con false promesse.
Quelle onde che ora ho so per certo che mi odiano, ricambiate .
Onde che entrano nel fatiscente barcone, con le murate che, dal nostro peso, cedono sempre più al loro incalzante bussare.
Sì, sono viva.
Lo sento dal freddo dell’acqua vicino ai miei piedi.
Lo capisco anche dalle grida che ascolto intorno a me.
Di orrore, perché il barcone è oramai come un mulo denutrito e piegato sotto carichi sempre più pesanti.
La sua sofferenza la ascolti nei suoi sinistri scricchiolii, nel suo gemere di assi che si piegano, di ferro che allenta la presa.
Poi incomincio a sentire anche altre grida.
Di gioia, di speranza, forse per qualche soccorso insperato.
Non mi importa piu’!
I miei occhi continuano a farmi male.
Li lascio chiusi
Le mie membra continuano ad essere intorpidite.
Che riposino.
Le mie labbra continuano ad aver sete.
Basta sale!
Non ho più paura di morire.
Temo di più cosa ancora devo affrontare.
Mi lascio andare.
Che sia il destino a decidere per me.
Insciallah!