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Quelli come Alì Muse

Questo non è un articolo vero e proprio.
E’ una risposta ad un post, dove l’autore, giustamente, rimarcava la tragedia di Alì Muse, l’immigrato che ha perso la vita nel rogo del capannone, a Sesto Fiorentino

L’indignazione è alta, e gli strali, non solo in questo post,che in parte condivido, tengono a raggiungere piu’ obiettivi: lo Stato, la sfortuna, il capitalismo, chi sembra razzista e chi è indifferente.

Io credo, invece, che sia ora di finirla questa caccia alla streghe e dichiararci tutti tali.
Lo dobbiamo ad Alì, ad Aylan e a quanti come loro hanno vissuto nel nostro egoismo e sono morti nella nosta ipocrisia.

“Caro (omissis), questa è una tragedia troppo grande per specularci sopra (non sto parlando di te, seguimi fino alla fine e mi auguro che mi capirai).
Tu dici di sapere chi l’ha ucciso, Alì.
E io ti credo.

Ma quello che ti chiedo, e lo chiedo a me stesso anche, è : sapevi dove viveva Alì? Cosa abbiamo fatto tutti noi per non fargli finire i suoi giorni in un capannone? E cosa altro di diverso abbiamo mai fatto per lui?
Perchè non basta piu’ essere semplicemente indignati dopo l’ennesima tragedia.
Che non ha alcuni colpevoli ma che ci rende tutti tali.

Sapevi che ogni volta che affermiamo che “li dobbiamo accogliere tutti”, che “anche noi siamo stati migranti”, oppure che “basta con le tragedie in mare”, che “sono una risorsa”, stiamo di fatto chiudendo tanti Alì in quei capannoni?

Oppure ci basta andare a dormire, tranquillamente fra le nostre lenzuola (vedi, uso il plurale, includendomi, perchè l’uso del plurale è democrazia, l’uso dell’io è tirannia!), pensando di aver risolto il problema solo con l’attraversamento di questo braccio di mare che è diventato, giocoforza, un cimitero?

E se per una volta provassimo invece a dire loro la verità: che siamo impreparati ad accoglierli, che non abbiamo leggi e strumenti atti a favorirne una giusta assistenza,non abbiamo un futuro per loro perchè incapaci di dare un presente ai nostri, che li faremo dormire in stazione, nelle metropolitane, nei capannoni che prenderanno fuoco, che affideremo i loro uomini ai caporalati e le loro donne ai marciapiedi, che li metteremo in competizione economica, i loro padri di famiglia con i nostri padri di famiglia, che sulla loro pelle al 50% lucriamo soldi e per l’altro 50% lucriamo ipocrisie?

Perchè non diciamo loro chiaramente che questo “volemose bene” è solo l’ultimo atto di un costante menefreghismo, dove l’unico interesse è solo quello di dare una centrifugata al nostro animo, senza mai però andare a sporcarlo in uno di quei capannoni?

Capannoni che però tutti quanti noi scopriamo, e ce ne indigniamo, sempre dopo, difficilmente prima, mai durante.

Non basta piu dire “io so” se prima di indicare l’individuo a nostro fianco non indichiamo anche noi stessi.

Perchè qui siamo tutti colpevoli, come si dice in chiesa, in pensieri, parole, opere ed omissioni.

Chiunque faccia il moralizzatore oggi senza essersi preoccupato ieri di quanto realmente capitava loro (perchè il dopo, finito il barcone, può essere piu devastante del viaggio stesso), è colpevole quanto chi li vuole, assurdamente, cacciare via.

Io so,e questo è certo, che in quei capannoni ce li abbiamo messi tutti noi.

Chi si indigna di loro e chi si indigna per loro.
Perchè fra questi due estremi c’è una immensa zona di deserto fatto di ipocrisia, nel quale ognuno lascia palla all’altro, rintanandosi all’ombra della sua morale appagata.
Ma dove muoiono, vengono schaivizzati, violentati, deeumanizzati tanti Alì, tanti Aylan.

Senza offesa, credimi.
Con stima.”

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