Il disastro avvenne il 26 aprile 1986 alle ore 1.23 circa, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale (all’epoca parte dell’URSS), a 3 km dalla città di Pryp’jat’ e 18 km da quella di Chernobyl’, 16 km a sud del confine con la Bielorussia.
Le cause furono indicate variamente in gravi mancanze da parte del personale, sia tecnico che dirigente, in problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell’impianto stesso e nella sua errata gestione economica ed amministrativa.
Nel corso di un test definito “di sicurezza” (già eseguito senza problemi di sorta sul reattore n. 3), il personale si rese responsabile della violazione di svariate norme di sicurezza e di buon senso, portando a un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo del reattore n. 4 della centrale: si determinò la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno a così elevate pressioni da provocare la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore.
Il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l’aria, a sua volta, innescò una fortissima esplosione, che provocò lo scoperchiamento del reattore che a sua volta innescò un vasto incendio.
Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente e rendendo necessaria l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone.
Nubi radioattive raggiunsero anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia con livelli di contaminazione via via minori, toccando anche l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani, fino a porzioni della costa orientale del Nord America.
In seguito, l’impatto dell’incidente sarebbe stato aggravato dalla lentezza delle operazioni di evacuazione di Pripyat (43mila abitanti) e dei villaggi circostanti la centrale, e dall’inadeguatezza delle misure adottate per informare e proteggere dalle radiazioni la popolazione e i 600mila “liquidatori”, mandati da Mosca a gestire un incendio che durò dieci giorni. Le stesse autorità erano impreparate ad affrontare il problema. Fu soltanto due giorni dopo, il 28 aprile, che suonò l’allarme, e non per iniziativa sovietica.
Trent’anni dopo, il 23% del territorio della Bielorussia è ancora contaminato (soprattutto dal Cesio-137), il 4,8% dell’Ucraina, lo 0,5% del territorio russo. Terre in cui vivono cinque milioni di persone. Per gli scienziati resta una sfida aperta determinare con precisione l’impatto della contaminazione sulla natura e sull’uomo. Se il bilancio ufficiale parla di 56 morti accertate e 4.000 presunte (tumori e leucemie da attendersi nell’arco di 80 anni, non associabili direttamente al disastro), altri rapporti attribuiscono a Chernobyl centinaia di migliaia di morti. Per Greenpeace la cifra è di sei milioni. Le emissioni di radioattività sprigionata dall’incidente furono 200 volte superiori alla potenza della bomba atomica sganciata su Hiroshima.