Questo per separare una volta e per tutte cosa sia stata la lotta partigiana (pure con tutti i suoi eccessi) e cosa sia stato il fascismo, con il suo circo Barnum di personaggi tratti da storie dell’orrore.
Articolo tratto da http://archiviostorico.corriere.it/1994/agosto/22/Koch_sua_banda_specialista_torture_co_0_9408226518.shtml
Di Bertoldi Silvio
“Non mi recai a casa perche’ sono diviso da mia moglie da piu’ di due anni: andai a Firenze e solo nel dicembre venni a Roma, incaricato dal generale Luna di riferire al capo della Polizia Tamburini che nel convento di San Sebastiano si nascondeva il generale Caracciolo. Tamburini volle affidare a me il compito di arrestarlo. Lo feci. Mi fu offerto di prendere il comando di un reparto di polizia. Accettai”.
Pietro Koch, il peggiore criminale italiano dei venti mesi della Repubblica di Salo’ , rievoca davanti al tribunale di Roma la sua storia, dall’ 8 settembre in avanti. All’ armistizio e’ ufficiale dei granatieri, tenente, in servizio a Livorno. Di la’ passa a Firenze e quindi scende a Roma, con la preziosa informazione che consentira’ di catturare il generale Caracciolo, gia’ comandante della Quinta Armata. Cosi’ entra nel giro grosso delle gerarchie repubblichine e diventa il capo di uno dei tanti “reparti speciali” pullulanti nell’ universo del neofascismo: la banda piu’ efferata, la piu’ cara ai tedeschi, specializzata in torture sadiche, dove c’ e’ il peggio della peggior geni’ a dell’ occupazione, tarati, ladri, assassini, pervertiti, degenereti, donne da marciapiede. Insieme con finti intellettuali, preti fanatici e perfino un attore famoso, Osvaldo Valenti, divo di Cinecitta’ , intimo di Koch al quale lo lega la ricerca e l’ uso e della cocaina. Koch e’ un personaggio complesso che non si puo’ sbrigativamente liquidare con l’ etichetta di criminale. Viene da una buona famiglia, suo padre era un tedesco da lunghi anni in Italia, sua madre una romana. A Roma studia al liceo Gioberti, si iscrive a giurisprudenza ma non riesce a laurearsi, sebbene in seguito vanti un titolo di dottore che non possiede. E nato a Benevento nell’ agosto 1918, deve sospendere l’ universita’ perche’ chiamato alle armi, nel 1939 viene posto in congedo e ha il problema di cercarsi qualcosa da fare. Koch tenta dapprima di mettersi in affari e si improvvisa commerciante di automobili, in anni in cui le automobili sono pochi a potersele permettere e in cui, addirittura, il sopraggiungere della guerra ne vietera’ la circolazione. Ha trovato un socio in un avvocato di Perugia, Augusto Trinca Armati, ricco, malato, psicopatico, che diventa il suo braccio destro quando nascera’ la banda. Non hanno fortuna e, intanto, ecco nel 1940 il nuovo richiamo per Koch, assegnato al Secondo reggimento granatieri, quello del principe Umberto. Per tre anni sara’ un ufficiale ne’ meglio ne’ peggio di altri. L’ 8 settembre ci si aspetterebbe che se ne tornasse a casa per mettersi a girare per i caffe’ e i cinema di Roma, sfuggendo a retate e richiami. Invece, si e’ visto quale sia stata la sua scelta; ed e’ difficile capire, a posteriori, cosa ve lo abbia spinto, un’ improvvisa accensione di spiriti mussoliniani o, piu’ semplicemente, la lusinga di una sistemazione dorata se per quel suo “reparto speciale” da Salo’ gli passeranno due milioni al mese di allora. La banda nasce cosi’ , con l’ arresto di Caracciolo, prima violazione dell’ extraterritorialita’ degli istituti della Citta’ del Vaticano. Koch ha arruolato i suoi sgherri e li ha sistemati alla pensione Oltremare, poi e’ passato in un’ altra pensione, la Jaccarino di via Romagna. Gli piacciono questi ambienti dell’ ospitalita’ piccolo borghese, dove si da’ meno nell’ occhio che nei grandi alberghi. Nelle cantine avvengono gli interrogatori e nella notte chi sfida il coprifuoco e passa di la’ ode le urla e i gemiti degli arrestati torturati perche’ facciano i nomi degli amici. Koch e’ specializzato nella caccia ai membri del Partito d’ azione e ai comunisti, tra gli altri “pesci” grossi catturati c’ e’ Luchino Visconti, salvato grazie all’ amicizia di Maria Denis con il bel tenente, pronto a rilasciare il regista in omaggio alla diva. Non gli riesce, invece, di arrestare Bontempelli, preda ambita, perche’ lo scrittore gia’ fascistissimo e accademico d’ Italia ora e’ passato alla Resistenza (nel dopoguerra diventera’ parlamentare comunista). Nella banda l’ avvocato Trinca Armati e’ il capo del cosiddetto ufficio legale, il vicecomandante si chiama Armando Tela, un italoargentino con una piccola industria in Toscana. Sono in tutto una sessantina, con tanto di segreteria, ufficio investigativo, autodrappello, ufficio disciplina, armeria, sorveglianza prigionieri. Un apparato per mascherare da polizia legale quello che e’ invece uno strumento di arbitri per operazioni persecutorie, tra l’ altro alle dipendenze della Sicherheitsdienst tedesca piu’ che della polizia repubblichina. Non mancano due preti, don Pasquino Perfetti e padre Epaminonda Troya, gia’ vice parroco di Santa Trinita a Firenze, e una schiera di donne, Lina Zini, Anna Saracini, Camilla Giorgatti, Teresa Ledonne, Anna Chiavini, Giulia Ferrini, Annapaola Marchetti, Maria Rivera e, perfino, una soubrette in quei mesi sull’ onda del successo a Milano, Daisy Marchi, amica del ministro della Real Casa Acquarone, e amante en titre del capobanda. Koch e la banda restano a Roma fino all’ arrivo degli alleati, poi risalgono a Nord, prima a Firenze e poi a Milano, la citta’ dei loro lugubri fasti. Scelgono una casa di via Paolo Uccello, a San Siro, la famosa Villa Triste, incubo di tanti che vi finirono e ne uscirono distrutti nel fisico; Koch, ora, ha un nuovo protettore a cui far capo: il capitano SS Saewecke che ha sede all’ albergo Regina, l’ uomo che arrestera’ Parri. Deve segnalarsi presso di lui e lo fa catturando antifascisti di spicco, strappando confessioni, denunciando simpatizzanti della Resistenza, soprattutto infierendo sui suoi prigionieri, nelle camere di tortura dai muri macchiati di sangue. Lui assiste, distaccato e sprezzante: lui che in quegli anni di miseria e di bisogni elementari inappagati veste con cappotti di cammello, scarpe inglesi, morbide sciarpe di mohair, tra un perenne effluvio di colonia. Racconta una delle sue vittime: “Viene portato nella stanza un telaio di legno sormontato da una striscia pure di legno larga circa 30 centimetri e lunga un metro, che recava sei file di chiodi ben appuntiti e lunghi. Denudato, mi si appoggia con le spalle su quella specie di “corde da lana” e, incrociate sul petto le braccia, mi si passa sul davanti un’ asta piatta di ferro che faceva cerniera sul lato del telaio e che, agganciata sul lato sinistro, mi comprimeva dolorosamente sulla striscia chiodata. Eccitati… mi schiaffeggiavano, mi strappavano i baffi, mi tiravano le ciglia… Sangue e carne restavano attaccati sulle punte acuminate dei chiodi”. La banda usa la corrente elettrica, i prigionieri vengono rinchiusi in celle alte solo un metro e venti, distesi a terra, in preda a crisi nervose. Gli sgherri di Koch li frustano, accendono fiammiferi piantati sotto le unghie dei piedi, schiacciano i genitali, colpiscono le reni con sacchetti di sabbia, fanno bere bicchieri di petrolio, riempiono di sale la bocca di infelici morenti di sete. Le “segretarie” assistono e spesso sono loro a spogliare le vittime e a infierire sui corpi nudi. La leggenda racconta che Valenti portasse la sua amante, la diva Luisa Ferida, ad assistere per sadismo a quelle scene e lei godesse delle urla e delle sofferenze, ma e’ provato che non e’ vero, i due attori andavano a Villa Triste soltanto per affari di cocaina. E si capisce: occorre qualcosa di forte, di eccitante per reggere il ritmo della crudelta’ . Il “dottor” Koch si mostra distaccato da quegli spettacoli nefandi, addirittura pietoso con le vittime sanguinanti. Fa capire che vorrebbe sospendere, curarli, ma perche’ non confessare, perche’ rimanere in mano a quei bruti da cui finge di prendere le distanze? Cosi’ alla ferocia si aggiunge l’ irrisione: perche’ se i torturati cedono e cominciano a parlare, Koch esce con il suo sorriso da calendario di barbiere e sui vinti piombano le scudisciate dei carnefici. Non e’ vero, come si dira’ , che Mussolini ignorasse l’ attivita’ di Koch. Non solo lo riceveva a Salo’ , ma gli affidava inchieste “speciali”, come quelle su Borghese e su Farinacci, se ne compiaceva, gli mandava regali, gli faceva sapere che godeva della sua considerazione.
Mussolini ha sempre avuto la passione per le polizie segrete, gli organismi inquisitori “coperti”, gli strumenti dell’ illegalita’ del potere. Salo’ pullulava di questi “reparti speciali”, di cui la banda Koch e’ il piu’ tristemente famoso, insieme con quella del maggiore Carita’ , con le squadracce dei Finizio, dei Bardi, dei Pollastrini, dei Panfi, dei Fiorentini, dei Pennacchio, dei De Sanctis, dei Bernasconi, dei Politti. Gente da galera protetta dai tedeschi e finita coll’ essere eliminata dagli stessi camerati repubblichini della “Muti”, quando le sdegnate proteste del cardinale Schuster e del presidente degli avvocati di Milano, Maino, costringono Mussolini a mettere fine alla vergogna. Koch viene arrestato dal capo della Polizia Montagna e trasferito a San Vittore. Esce pochi giorni prima della Liberazione, non si vuole lasciarlo in mano ai partigiani, cosi’ gli salvano la vita. Si tinge i capelli di biondo, si procura chissa’ come documenti alleati falsi in cui figura come Ariosto Broccoletti, commerciante. Gira senza essere riconosciuto prima per Milano, poi scende verso Firenze dove vive il suo grande amore, la bella sedicenne Tamara Cerri. Qui avviene la svolta del suo destino: a Firenze sente dire che la ragazza e’ stata arrestata e con lei anche sua madre, forse la prigionia delle due persone che gli sono piu’ care lo indurra’ a presentarsi. Lo fa, senza esitazioni. Va in Questura e al primo agente incontrato dice: “Sono io quello che cercate, sono Pietro Koch”. La sua vita in cambio della liberta’ di sua madre e della sua donna. Lo portano a Roma e il processo dura soltanto tre giorni. Si comporta con indifferenza. Non respinge le accuse. Ascolta con un lieve tremito delle labbra la condanna a morte mediante fucilazione. In cella scrive molte lettere, poi si confessa devotamente a un prete venuto su sua richiesta e riceve un giornalista concedendogli una vera e propria intervista in articulo mortis. Si mostra freddo, gia’ distaccato dalle cose del mondo. Non accusa nessuno, non scarica su altri responsabilita’ sue. Difende galantemente Daisy Marchi: inutile perseguirla, non ha colpa di nulla. Ma allora come mai il suo nome figurava tra i collaboratori del capitano Saewecke? Lo fucilano il cinque giugno 1945, alle 14.21 d’ una torrida giornata di sole accecante, al Forte Bravetta. Veste un abito chiaro, la camicia aperta sul collo della giacca, la pettinatura impeccabile. Siede con mossa rapida sulla sedia, lo legano e una macchina da presa gira la scena dell’ esecuzione. Regia di Luchino Visconti. Pochi giorni dopo gli italiani vedranno i fucili puntati, gli spari e la calotta cranica di Koch saltar via come strappata dal vento a ricadere lontano, sull’ erba secca del prato.
Bertoldi Silvio