IL BOSCO DI FAGGI.
Buchenwald, «bosco di faggi» in tedesco, 19 aprile 1945.
Sono le 5 passate del mattino, l’alba sta per sorgere.
Il tempo che occorrerà alla mia sigaretta per consumarsi.
Da ogni fine un inizio, da ogni morte una vita.
Ci sono luoghi, però, dove non è possibile.
Mi appresto a testimoniare, con questo mio scritto, alcuni accadimenti di questi ultimi estenuanti e terribili giorni.
Ciò affinché l’oblio, al quale dovrei agognare in virtù′ di preservare la mia sanità mentale, non cali su ciò che abbiamo visto.
Abbiamo scoperchiato l’inferno e siamo consci di non averne che solo intravisto il fondo.
Siamo a 9 km da Weimar, in quella Turingia tanto cara a Johann Sebastian Bach, Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, Franz Liszt, Richard Wagner e Friedrich Nietzsche.
Buchenwald è posta su di una collina dei contrafforti dello Harz, con i suoi faggi a sussurrare carezzati dal vento i misteri di una regione di una bellezza selvaggia.
Selvaggia ma mai spietata come gli uomini che l’hanno profanata negli ultimi dieci anni.
Quando, meno di una settimana fa, abbiamo attraversato i cancelli aperti di questo inferno a cielo aperto, lo spettacolo che si è parato innanzi noi fu degno del peggior girone dantesco.
“Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”, il terribile monito ad accoglierci.
E che un numero imprecisato, di quelli che una volta forse sono stati esseri umani, sia stato testimone che ciò è stato mantenuto, è lì a dimostrarcelo in tutto il suo orrore.
Migliaia di cadaveri vestiti o seminudi mischiati a esseri umani ancora vivi o moribondi, ma scheletrici e emaciati tanto da non poter distinguere gli uni dagli altri.
Fosse comuni a cielo aperto, macabri sudari senza distinzione di sesso e età, bambini, donne, anziani e giovani.
Su di loro pascevano ratti e pidocchi, irrispettosi e impietosi dei morti, incuranti e insaziabili dei vivi.
Dappertutto tanfo di morte e putrefazione, vomito e escrementi, nonostante su alcune pile di morti fossero state gettate colate di calce.
E poi le stanze degli orrori, i laboratori medici che erano sale di tortura e di indicibili esperimenti su cavie umane, le topaie dove alloggiavano questi disgraziati, le camere a gas.
E l’alta torre del forno crematoio, il simbolo della «soluzione finale» tedesca.
O, sarebbe meglio dire, della dissoluzione in particelle di fumo e cenere di quei miserabili resti.
Alcuni, mi dice qualche sopravvissuto, bruciati ancora vivi; così tanto per scommettere, tra i suoi aguzzini, quando tempo avrebbe gridato il malcapitato chiuso nel forno.
E ora, con la mia sigaretta ancora a metà, immagino quelle volute di fumo alzarsi in cielo e, trascinate dal vento, sorvolare quella misteriosa e diabolica foresta, muta testimone di misteri e tremendi orrori.
Sento quasi l’odore della carne umana, bruciata nel forno crematoio, trascinata, mista al fumo, fino a Weimar.
Forse in quella stessa piazza dove, qualche secolo prima, tornando da uno dei suoi viaggi Goethe avrà aspettato, come me, l’arrivo di una nuova alba.
Respirando però l’odore della rugiada del mattino, delle campagna con i suoi pascoli e le sue stalle.
Il suo Werther, o forse lo stesso Goethe, agli orrori di oggi, avrebbero ben donde ragione a spararsi alla tempia!
E le scarpe!
Montagne di scarpe ammassate, tolte a chi non ne avrebbe avuto più′ bisogno, usate come combustibile per cucinare il miserabile rancio, una patata e un pezzo di pane, a quei poveracci che “meritavano” meno dei cani che servivano da guardia.
Ciò che più colpisce e turba però sarebbe ancora venuto a divenire.
Il 15 aprile 1945, una circolare dell’alto comando americano, ci impone di rastrellare i cittadini di Weimar e portarli in quel museo degli orrori.
Lo scopo è renderli partecipi di ciò che sono stati, più o meno volontariamente, complici.
I loro volti, i loro atteggiamenti, i loro vestiti, mio Dio!
Li ho visti arrivare, lindi e vestiti con l’abito della domenica, come se andassero a un pic nic come tanti altri fatti tra quella brughiera o alla festa patronale.
Li abbiamo fatti sfilare fra file di cadaveri, fosse comuni, abbiamo preparato per loro banchetti, come in un mercato rionale, con sopra paralumi e copertine di libri fatti di pelle umana e addobbi di ossa e teschi.
Li abbiamo armati di pale e fatto scavare fosse per dare sepoltura a quei poveri resti.
Le loro guide erano talvolta qualche detenuto ancora in buone condizioni solo in virtù′ del fatto di essere arrivato da poco in quell’inferno.
Li abbiamo visti sbiancare, vomitare, qualche donna svenire.
Forse non sapevano la gravità di quanto accadeva in quel luogo, ma erano oramai consci di esserne stati complici.
Perché sapevano di questi disgraziati che venivano mandati in città come forza lavoro gratuita.
Non potevano non sapere che le vittime delle camere a gas diventassero fertilizzanti venduti ai contadini.
E, nonostante ciò, alcuni di loro, molti, troppi, hanno sguardi di una malcelata soddisfazione e illuminati da lampi di odio.
Alzano la testa con arroganza in segno di sfida.
Sono l’humus, il terreno fertile nel quale il nazismo ha trovato linfa vitale e sostegno.
In questi giorni io non sono svenuto, né ho vomitato.
Dio sa se non ne avessi avuto voglia, ma ogni mio spazio interno è stato occupato da qualcosa di più forte, qualcosa che mi impediva di fare l’una o l’altra, o forse entrambe le cose.
Sentivo crescere in me una violenza che poteva essere addomesticata solo con altra violenza.
Allora ho osservato, annotato, ho fotografato aguzzini e vittime, morte e vita, cani e uomini che si disputano un osso, la pietà negli occhi di chi è stato piegato nell’anima, spezzato nel corpo.
Sopratutto, però, l’odio negli occhi dei vinti, di quei cittadini di Weimar e di altri paesi limitrofi che avranno continuato a fare pic nic domenicali, arrostendo crauti e salcicce, bevendo birra in quella stessa foresta che mascherava un orrore così grande a pochi chilometri da loro.
In quegli sguardi di odio e arroganza ho perso ogni compassione per i tedeschi.
Quegli sguardi sono la muta testimonianza che non potevano non sapere.
Bastava che si affacciassero dalle finestre di casa e osservassero quelle volute di fumo trasportate dal vento.
Come ora io osservo l’ultima voluta di fumo della mia sigaretta.
E’ l’alba.
La sento, la vedo, la percepisco, come Goethe, qualche secolo fa, nella piazza di Weimar.
Non sento però l’odore della rugiada, della campagna, delle stalle e dei pascoli.
I faggi si piegano al vento che cala dalle montagne dell Harz.
Sussurrano di misteri e orrori.
Tra i loro rami viaggiano solo tanfo di morte e disperazione.