LO SCOGLIO E IL FARO
«Sole di primavera /Su quello scoglio in maggio è nato un fiore»
(Fiore di maggio – Fabio Concato)
Non so se quel 30 maggio 1984 nacque un fiore.
Quello che so che io ero sicuramente su uno scoglio, sotto un faro di segnalazione, su uno delle due braccia fatte di scogli e cemento che cingono il porto di Procida e che c’era un meraviglioso sole
Ho fatto “filone” a scuola, il Nautico, tanto i giochi sono fatti.
Sopratutto non c’è testa ,quella giornata, di seguire lezioni.
Pensieri, idee, ansia e il piacere dell’attesa sono tutti rivolti alla sera.
Magica, comunque vada.
Dietro di me ho il fantastico scenario delle case dai mille colori di quell’isola piccola e accogliente, tutte unite come a formare un arcobaleno di mattoni che t’accoglie da quando sei in mare.
Davanti a me l’orizzonte limpido, a destra Monte di Procida, davanti il golfo partenopeo.
Al mio fianco una ragazzina della mia età, i soliti pruriti adolescenziali, niente di particolare.
Le nubi di fumo della sua sigaretta si confondono con quelle bianche del cielo.
I miei pensieri attraversano pure essi.
Non mi da fastidio che lei fumi, a me che non ho mai fumato, nossignore.
Non sarà quello che ci dividerà in futuro, solo la solita voglia di correre dietro nuove esperienze, da immaturi.
E’ una giornata bellissima, il sole splende alto, le onde placide e soffici nubi alte nel cielo sembrano cullare i miei sogni.
Sogni di coppe e campioni, come canta Venditti.
C’è il sole, c’è il mare, c’è la Coppa Campioni, c’è la finale quella sera, c’è Roma, c’è la Roma.
Cosa può andare mai male?
Cosa è andato male tra maggio e luglio di quegli ultimi anni?
Coppa Italia, 1980 e 1981, Mundial 1982, scudetto 1983.
Sembra un destino scritto.
Devi solo far passare l’orario di scuola,salutare la ragazzina che ti è a fianco, prendere il traghetto di ritorno, tornare a casa da quei genitori ai quali non hai mai detto una bugia ma sempre mezze verità (infatti la mattina li salutavo dicendo “Vado a Procida” e questo, effettivamente, accadeva) e poi prepararti per la serata.
Quella che aspetti per una vita, quella per la quale i tuoi spocchiosi compagni juventini soffrono da una vita.
Rep e Magarth i loro spauracchi.
I miei potevano diventarlo Dodds e Sturrock, onesti pedalatori di una onesta squadra scozzese, il Dundee.
Un’altra giornata di sole, stavolta di aprile, nessun filone a scuola perché era il 25 , il Giorno della Liberazione, avevano spazzato quei fantasmi, logico corollario di un percorso non difficile, superato con facilità seppur da esordienti: Goteborg, Cska Sofia, Dynamo Berlino e, per l’appunto il Dundee.
Durante il percorso delle altre, risultati a sorpresa e scontri diretti avevano eliminato gli avversari più terribili: Ajax, Benfica, Amburgo, Athletico Bilbao.
Ne era rimasto solo uno, il Liverpool, un mostro di squadra in quegli anni.
Che, guarda caso, aveva vinto la sua prima Coppa Campioni nel 1977 proprio a Roma, contro il Borussia M’Gladbach.
Ecco, se c’era una nota stonata era quella.
Pazienza.
NOTTE DI LACRIME E DI PAURA
«Notte di sogni, di coppe e di campioni /Notte di lacrime e preghiere /La matematica non sarà mai il mio mestiere » (Notte prima degli esami, Antonello Venditti)
Io in matematica andavo bene, meno in chimica.
E così non sapevo che la formula chimica dell’adrenalina, quella droga che sentivo scorrermi nel sangue, mentre mi sedevo davanti alla TV, insieme a mio padre, mio zio e mio cugino, era C₉H₁₃NO₃.
Che c’entra la formula chimica con la partita?
Niente, per l’appunto.
La chimica era l’ultimo dei miei problemi.
Ci avrei pensato a settembre.
Le squadre entrano in campo, ora pretendo l’assoluto silenzio da tutti.
Quanto è bello il nostro capitano, Agostino, con quella maglia bianca dai bordi rosso acceso, senza sponsor!
E quel lupetto bianco stilizzato in cerchio rosso sembra voler affondare i denti nella carne degli albionici.
Non c’è Aldo Maldera, il nostro terzino sinistro titolare (il classico numero 3, anche se portava il 6. Guarda caso il 3 è un numero presente nella formula chimica dell’adrenalina) squalificato per una ammonizione troppo generosa subita contro il Dundee, rigorista infallibile e capace di fulminarti su calcio di punizione dal limite.
Al suo posto Michele Nappi, appena 11 presenze quel campionato, manco presente nell’album Panini di quell’anno, la riserva della riserva Oddi.
Però uno che risponde sempre “presente” quando viene chiamato in causa.
C’è, al netto di qualche problema fisico, l’ottavo Re di Roma, al secolo Paulo Roberto Falcao, colui che, da quando è sbarcato a Fiumicino, ci ha guidato fino a quella sera.
Manca Carletto Ancelotti, alle prese con l’ennesimo menisco saltato.
Gli inglesi ridono e scherzano, i nostri sono troppo tesi.
Meglio così, l’avversario non è da prendere sotto gamba.
Loro sono gli esperti in cerca della definitiva consacrazione, noi i principianti partoriti dalla prigionia di un sogno dal quale il presidentissimo Dino Viola ci ha liberato.
La partita inizia, i giallorossi in bianco sono contratti, i “reds” albionici fanno capire di non essere lì in gita.
E sicuramente non è in gita il destino, nossignore.
Bastano 13 minuti (strano, il numero è nella formula chimica dell’adrenalina) e ti accorgi che il destino, sotto forma di sfiga, sta dipingendo un gol assurdo.
Johnston crossa e Whelan carica Tancredi che perde la palla, Bonetti rinvia sul portiere a terra e la palla arriva proprio tra i piedi di Neal (guarda un po’, quella puttana di N presente in quella formula chimica) che di esterno mette dentro a porta vuota.
Il fallo evidente sul portiere, l’errore marchiano nel rinvio di Bonetti ( oh quanto l’ho bestemmiato!), il terzino destro avversario che si fionda e segna nello spazio dove manca il tuo terzino sinistro titolare.
Diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova».
Ebbene, i tre indizi ci sono e la prova anche: la sfiga da noi è di casa!
La dinamica è tale che ti sembra di impazzire, non sai se prendertela con l’arbitro, con Bonetti, con Tancredi che è basso, o con quel destino cinico che ti entrerà da quella sera nel DNA di tifoso giallorosso.
Negli anni a seguire, con le frustate sulla tua pelle di tifoso giallorosso come insegnamenti, capirai che fa parte di quel tragico disegno del “mai ‘na gioia”, inaugurato quella sera e poi prodotto in serie con Lecce, Inter, Slavia Praga, Torino, Sampdoria e via via sino fino alla tragica finale di Coppa Italia con la Lazio.
«Se qualcosa può andar male, lo farà.», Arthur Bloch, l’ideatore della Legge di Murphy, un insieme di paradossi pseudo-scientifici a carattere ironico e caricaturale da cui la frase, pensava a noi, probabilmente.
Comunque è inutile pensarci di nuovo.
È andata come è andata, bisogna continuare a giocare.
E pian piano, pur senza un Falcào illuminante, tra la generosità di Ciccio Graziani, qualche scatto di Marazico Conti (che deve cambiare fascia), la potenza di Sebino Nela, il caracollare di Cerezo e la lucida regia di Agostino qualcosa si incomincia a intravedere.
Diciamo che ci va anche bene, dai, quando l’arbitro svedese Fredriksson annulla un secondo goal al Liverpool per fuorigioco di Rush, anche se a colpire la palla è stato Johnston arrivando da dietro.
Siamo, però in partita e, decisamente giochiamo meglio.
Fino alla pennellata d’autore, quel goal impossibile da descrivere se non lo vedi, quel goal che solo il bomber, lode a te Roberto Pruzzo, può fare.
Sebino Nela,l’incredibile Hulk, quello delle sgroppate sulla fascia destra (oggi a sinistra per sostituire Maldera) quello del dito medio all’allenatore del Dundee a fine partita, uccella l’avversario, porgendo una splendida palla a Brunetto Conti.
L’ala giallorossa e della nazionale, colui che Pelè giudicò il miglior giocatore di Espana ’82, prova prima a mettere dentro la palla prima di sinistro, poi di destro di contro balzo.
Sarebbe forse una palla innocua se lì davanti non ci fosse un certo Roberto Pruzzo.
178 centimetri, non certo un gigante, e non sentirli, quando sai come e quando colpire una palla di testa.
Una torsione del collo quasi innaturale, all’indietro, quel tanto da imprimere forza a una palla scarica e lenta, che beffardamente scavalca Grobbelaar sul secondo palo.
Un goal che non è frutto della casualità.
Lo ha già fatto, quasi similmente, al Genoa, poco più di un anno prima, quando ci regalò la certezza di essere campioni d’Italia.
Vuoi vedere che è un segno del destino?
Perciò, forse, c’è quel numero 9 nella formula chimica dell’adrenalina.
Che ora è a palla!
A proposito, prima che mi distragga.
GOOOOLLLLL!!
Non so cosa sia volato, se la scala Mercalli abbia avuto ancora un valore in quel momento, so solo che ha tremato il tavolo dove erano seduti mio padre e i miei congiunti (quelli veri, non da decreto di Conte) e che io mi sono trovato abbracciato al televisore e a baciarlo, manco fosse una puntata di Drive In e sullo schermo passassero i meloni della Carmen Russo.
E’ il 42°, si soffre e si va all’intervallo.
Nel secondo tempo entrano in campo due squadre diverse.
Lo vedi, lo senti, lo percepisci.
Quello che non percepisci è che forse sarebbe troppo facile, non da Roma.
Il giorno dopo Gianni Breia, vate del giornalismo sportivo, dirà «il Liverpool del secondo tempo era da battere assolutamente»
Assalti inutili e inconcludenti, qualche parata di Grobbelaar, qualche bestemmia per qualche bomba di Di Bartolomei che sbatte sui polpacci sbagliati riposti nel posto sbagliato.
E per poco non ci sfugge la beffa con gatto Tancredi che salva su Daglish e Neal .
Intanto, però una leggera inquietudine ti prende.
Pruzzo, il bomber, è costretto ad uscire, non sta più in piedi.
Maledizione, con lui, Ancelotti e Maldera fuori perdiamo il terzo rigorista.
Ecco cosa significa quel numero 9 presente nella formula dell’adrenalina.
Tre numeri, tre dazi pagati.
A distanza di anni, ce n’è abbastanza per farmi odiare ancor di più la chimica.
Stancamente si va ai supplementari, entrambe le squadre sono fisicamente provate, è chiaro e lampante che il Liverpool, dall’alto di una notevole esperienza, punti ai rigori.
E se a te poi si fa male l’ennesimo rigorista, il tappetaro Cerezo sostituito da Strukelj (11 partite in stagione come Nappi), capisci che quella giornata iniziata con un filone, passata fra effusioni amorose, sole e sogni di coppe vinte, si sta trasformando in una sera di lacrime e paure, come la canta Venditti.
Si va ai rigori, quei rigori che ci hanno consegnato due Coppe Italia.
E che per la prima volta, nella storia della competizione, assegnano una Coppa Campioni
Falcào si rifiuta di batterlo, brutto segno.
Se ti guardi intorno vedi che le tue aspirazioni risiedono più in Tancredi, portiere para rigori, che nei battitori tra i quali spicca sì Agostino (reduce, però, da due rigori falliti nelle due precedenti finali di Coppa Italia), e Bruno Conti, ma poi c’è solo il ragazzino Righetti e Ciccio Graziani, stagionato bomber, che ci ha regalato si due Coppe Italia, ma solo perchè giocava nel Torino e i rigori, entrambe le volte, li sbagliò.
Sarei un bugiardo se non vi dicessi che ero quasi rassegnato, cercavo di spiegare ai miei parenti perchè eravamo oramai battuti.
Mancavano Maldera, Pruzzo, Cerezo, Ancelotti, tutti i rigoristi.
Falcào era out per sua scelta e Dio solo sa quanto influisca sull’umore di una squadra tale comportamento di un leader.
Papà, mio zio, mio cugino cercano di farmi coraggio, ma loro sono tifosi del ciuchino napoletano, sai quanto gli frega di un lupacchiotto che ora appare spelacchiato!
Eppure qualcosa sembra sovvertire il mio pessimismo.
Tira Nicol, palla che va in curva, e daiiiii!
Tira Agostino, Grobbelaar in un altra vita è stato soldato nella guerra civile in Rhodesia, ma niente può sulla bomba del Capitano.
E’ 1 a 0 per noi, in questo preciso momento, in questi pochissimi istanti siamo sul tetto d’Europa.
Pochissimi secondi per assaporare quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
Quel calice di gioia poi negato, che poi diventa amara cicuta che ti avvelena pian piano.
Batte Neal, ancora lui, ancora quella N della formula chimica, e ci purga nuovamente.
Fa niente, siamo 1 a 1 e abbiamo un rigore in meno battuto.
Sta tutto ancora nelle nostre mani.
O forse nelle gambe che sembrano diventare mollicce di un portiere, Grobbelaar, che ha conosciuto gli orrori della guerra.
Sembra ubriaco mentre si dirige verso la porta morde.
Chiaramente sta provocando e Brunetto Conti ci cade completamente.
Pronti, partenza, via e tiro.
Pallone che diventa un satellite di quella Luna che osserva dall’alto l’Olimpico e i suoi astanti.
Souness e Rush non sbagliano, così come non sbaglia lo sbarbatello Righetti che va al tiro tra questi due mostri calcistici.
Tocca allora a Ciccio Graziani.
Non ho il coraggio di guardare, ma mi obbligo.
Ricordo i due rigori sbagliati con il Torino contro la mia Roma.
E so anche che, dopo Agatha Christie e la legge di Murphy, perfettamente applicabili alla storia della Roma di quella sera, c’è anche il famoso detto “non c’è due senza tre” che fa al caso nostro!
Grobbelar continua a fare lo stronzo con le gambe mollicce, morde la rete, sulla linea di porta sembra essere preso da epilessia.
Pizzul commenta con un signorile: «E vedete i numeri che fa Grobbelaar»
Ciccio si fa il segno della croce (forse una sberla al portiere dello Zimbabwe sarebbe stata più appropriata) ma non basta.
Pronti, partenza, via e tiro che fornisce un altro satellite alla Luna romana, dalla faccia triste come l’anima mia.
Tutti gli enunciamenti, da quelli di Agatha Christie e Murphy, sino ai detti classici sono stati applicati.
Alla perfezione, da Roma per l’appunto.
«NOTTE DI SOGNI, DI COPPE E DI CAMPIONI/ NOTTE DI LACRIME E PREGHIERE»
Gli ultimi ricordi che ho di quella notte, iniziata di mattina tra filoni, pomiciate e sogni, e terminata tra lacrime e preghiere diventate bestemmie, sono la corsa gioiosa di un portiere, ex soldato, qualche attimo prima quasi epilettico e ubriaco sulla linea di porta.
Un qualcosa che, a quel punto, assume ancora di più il sapore della beffa.
E i cori dei tifosi giallorossi che, passato il momento catartico del dolore e dello stupore miscelati, salutarono la loro squadra come se quella coppa l’avessero alzata.
Col senno del poi, nei giorni a seguire, capirò quela scelta e la farò mia, riuscendo ad assimilare il dolore e trasformarlo in una forma di orgoglio.
Io quella partita, la sera del 30 maggio 1984, non l’ho mai persa, perché perdere ai rigori non è perdere come lo è per un tiro di Rep o di Magarth.
La mia partita è durata 120 minuti, non 5 o 7, e in quei 120 minuti la Roma, io, noi tutti tifosi della Magica non abbiamo perso.
Gianni Brera commenterà «A noi, la consolazione, ahimè, abbastanza magra, di sentire i tifosi romani invocare la loro squadra con un amore e una devozione superiori all’ amarezza. Con dietro questa gente, una società non può davvero fallire. E la Roma, entrata con pieno diritto fra le grandi d’ Europa, saprà immancabilmente confermare questo augurio».
L’ultimo calice amaro lo bevo il giorno dopo.
Torno a scuola, ho un compagno bravissimo a disegnare.
Sul muro, appena entro, c’è l’immagine, a grandezza naturale, di Grobbelaar dalle gambe mollicce che piscia in una Coppa Campioni, mentre un lupacchiotto piangente si dispera disteso in terra.
Nessuno la toglierà di lì fino a fine anno scolastico, oramai agli sgoccioli.