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CHISSA’. CHISSA’ CHI SEI…

Roma.

Stazione Termini.

Ieri 20 giugno, ore 11,00 circa.

Lato del capolinea ATAC.

Sono in attesa di un taxi, c’è una fila incredibile.

Mentro aspetto, con mia figlia, avanzando un passo e un giro di rotelline di trolley alla volta , non posso che notare come questo mondo sia diviso.

Addossate alle pareti di vetro della stazione, piccole case con mura di cartone e coperte, qualche busta piena di chissà cosa per mobilio e qualche piumone per letto a terra, e persone sedute, uomini e donne, quasi rassegnate.

«Chissà, chissà chi sei/Chissà che sarai/Chissà che sarà di noi/Lo scopriremo solo vivendo/
Comunque adesso ho un po’ paura
»

Ad aspettare chissà cosa, chissà chi, chissà quando, chissà come, molto similmente alla canzone di Lucio Batttisti.

Che è una canzone di amore. E di dolore. E di paura.

Qui togliamo pure l’amore.

Quello che colpisce che oggi non sono più′ i classici clochard di etnia, diciamo, caucasica, quelli quasi non li trovi piu’.

Sono mosche, per l’appunto, bianche.

Forse semplicemente scompaiono al mattino per riapparire la sera.

«Inseguendo una libellula in un prato/Un giorno che avevo rotto col passato/Quando già credevo di esserci riuscito/Son caduto»

Torniamo alla stazione, all’attesa della fila, a quelle case di cartone.

Quelli che vedo sono persone di colore, che hanno inseguito la loro libellula sul prato sotto forma di un sogno, di una vita nuova.

Solo per cadere in una nuova forma di miseria.

Ci sono due mondi, su quel marciapiede.

Il mondo di quei poveri disgraziati, dalle case di cartone e del puzzo di piscio e di sudore, e il mondo di noi, dei trolley più′ o meno firmati, del profumo del deodorante che copre l’alone creato dall’afa.

Di là c’è un mondo che col piattino cerca di portarsi a casa un tozzo di pane giornaliero, di qua chi si può permettere o meno di spendere una trentina di euro per una corsa in taxi con l’aria condizionata.

Non sto facendo la morale a nessuno, intendiamoci, anche io era là per prendere un taxi e per arrivare in orario a destinazione.

«Il magazzino che contiene tante casse/Alcune nere, alcune gialle, alcune rosse/ Dovendo scegliere e studiare le mie mosse/ Sono all’ impasse»

Nel mondo di mezzo, quel pezzo di marciapiede che fa da muro invisibile divisorio tra le case di cartone e i trolley in attesa, avanza un ragazzo, sempre di colore.

Ha più′ o meno vent’anni, barcolla e vaneggia con le mani e con il viso.

Forse effetto di quella busta di vino da un litro che ancora stringe in una mano, come unica ricchezza in suo possesso.

Veleno per annientarti e medicina per dimenticare allo stesso tempo.

Il jeans che indossa gli scende quasi alle cosce, tanto che è magro.

Sotto indossa un altro pantalone, che forse fa anche da mutande.

Insomma tutto il suo vestiario, forse, è la: conservato nel guardaroba che è lui stesso.

Altro che magazzino, altro che casse, le sue mosse che sono ridotte all’annegare il dolore nei fumi dell’alcol e la sua impasse che si risolve tra morire subito in mare o lentamente tra i fumi dell’alcol e l’indifferenza di una città.

Nel nostro mondo si intrufola una donna, vecchietta, piccolina, piegata da un lato e con l’immancabile cartello in sgrammaticato italiano, vestita di velo o tunica che dir si voglia, da capo a piedi.

Le allungo due euro, una signora in fila dietro di me borbotta, compiaciuta, che quella vecchietta ieri camminava dritta.

«Una frase sciocca, un volgare doppio senso/ Mi hanno allarmato, non è come io la penso/Ma il sentimento era già un po’ troppo denso/E son restato »

Forse in me non avevo bisogno di sentirlo, lo sapevo.

Vabbuò, mi sarò fatto fare fesso, ma va bene lo stesso.

Arriva il taxi, è il nostro turno, io e mia figlia vi saliamo e lasciamo i trolley e le case di cartone.

Napoli, 21 giugno.

Molo 22, ore 18,00

Roberto Saviano sale a bordo della nave di Open Arms e discuterà, in diretta radiofonica, con Oscar Camps del tema #InMareNonEsistonoTaxi

Che poi è anche un bel modo di fare pubblicità.

A se stesso e al suo libro che ha, guarda caso, proprio quel titolo (al prezzo di euro 18,61, su Amazon, per chi fosse interessato).

Ci sorbiremo l’ennesima paternale apparecchiata con l’ausilio di un coglione leghista in cerca di voti.

«Mi sto accorgendo che son giunto dentro casa/ Con la mia cassa ancora con il nastro rosa/ E non vorrei aver sbagliato la mia spesa o la mia sposa»

Chissà se Saviano capiterà mai a Termini (ma potrebbe essere da qualsiasi altra parte), in trolley, ad aspettare un taxi, e osserverà quelle case di cartone e quelle persone che sono cadute senza acchiappare la libellula del loro sogno.

Quel ragazzo che è guardaroba di se stesso e quella vecchietta piegata che forse mi ha fregato due euro.

Chissà se arriverà mai a domandarsi: li abbiamo salvati da loro stessi, ora come li salviamo da noi stessi?

Al di fuori della Open Arms, al di fuori dei quartieri come i Parioli, al di fuori delle fiere del libro.

Se non abbiamo sbagliato spesa e sposa insieme.

«Chissà, chissà chi sei/Chissà che sarai/Chissà che sarà di noi/Lo scopriremo solo vivendo/ Comunque adesso ho un po’ paura/ Ora che quest’avventura/Sta diventando una storia vera/Spero tanto tu sia sincera/»

Che è una canzone di amore. E di dolore. E di paura.

Qui togliamo pure l’amore.

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