«Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche»
(Piergiorgio Welby)
Piergiorgio Welby, Giovanni Nicoli, Eluana Englaro.
Storie diverse accomunate da un unico fattore comune: essere prigionieri del proprio corpo.
Un carcere ancora più terribile di quello costruito con sbarre e mura, carcerieri e filo spinato.
Un carcere nel quale è inutile sperare arrivi una amnistia o un condono di pena.
Strano.Combattiamo per i diritti dei carcerati, fornendo loro leggi con indulti e amnistie, anche a fronte di condizioni di vita pietose che spesso sfociano in atti di suicidio.
Nel caso di malati come i tre casi sopra citati, Welby, Nicoli ed Englaro, alla loro richiesta di suicidio assistito, rispondiamo picche negando loro l’unica vera libertà alla quale possono aspirare: una buona morte!
Sono passati dieci anni dalla morte assistita di Welby e, seppur qualche timido passo è stato fatto in avanti, vedi il testamento biologico, dal punto legislativo ci sono ancora molte lacune sulla questione della “morte assitista”.
Problematiche di governi troppo timidi e timorosi di affrontare una tematica molto scottante, viepiù in una nazione che ha al suo interno uno Stato religioso, la Chiesa cattolica.
Tematica che invece, in altre nazioni, è stata brillantemente affrontata e risolta, cercando un giusto connubio fra la moralità e la necessità, fra il diritto alla vita e quello alla morte, tra la concezione spirituale e quella laica.
Giusto così, visto che la nostra società corre tremendamente veloce.
E le nostre leggi, le nostre vite, il nostro umano divenire devono essere al passo con tale sfrenata corsa.
Gli sviluppo della medicina hanno consentito di migliorare le aspettative di vita. Anche quelle dei “malati terminali”.
Questo comporta, però, nuovi problemi dal punto di vista dell’etica morale, della concezione religiosa e della prassi giuridica.
Se da un lato si dibatte sulla sacralità della vita, dall’altro si ribatte sul diritto ad una qualità della vita e alla disponibilità del proprio corpo.
Da un lato il rammentare, ai medici, del giuramento di Ippocrate, dall’altro la ferrea volontà di non essere doppiamente vittime tramite un inutile accanimento terapeutico.
A mio avviso c’è anche un altro elemento che andrebbe affrontato. Quello della dignità del malato.
Ho visto Welby, ho letto di Nicoli, ho cercato di mettermi nei panni di Eluana.
Tramite loro sono arrivato a comprendere perfettamente la volontà del ragazzino diciassettenne in Belgio che ha chiesto e ottenuto, malato di cancro terminale, l’eutanasia.
Torniamo a quel paragone che ho fatto all’inizio: il corpo come un carcere!
Quel corpo che collassa, deperisce, si piaga e ti oltraggia nell’anima,anno dopo anno, giorno dopo giorno,ora dopo ora.
Il tutto mentre mangi, dormi, fissi con lo sguardo sempre quella stessa parete, quella stessa finestra, quegli stessi colori, oggetti.
Senza soluzione di discontinuità, implacabile, inflessibile.
Se c’è la mano di un Dio qualunque, nella vita di un uomo, a stabilirne la sacralità, a chi potremmo mai ascrivere l’orribile merito d’aver inventato un sì terribile carceriere e boia allo stesso tempo?
Io credo che la libera scelta sia il principio di ogni stato democratico.
Tant’è che nell’antica Grecia il suicidio era considerato lecito.
E non ho io diritto al suicidio, se sono comunque impossibilitato ad ottenerlo da me, data la mia infermità?
E se un medico ha il dovere di prestarmi ogni sorta di cura pur di mantenermi in vita, che prezzo ha la mia sofferenza giornaliera , protratta nel tempo, rispetto al suo codice deontologico?
Welby supplicò di essere aiutato legalmente finché non trovò un uomo comprendente, prima ancora che un medico conseziente, ad aiutarlo.
Eluana dovette subire, inconsciamente, anni di cause legali e la demonizzazione di un padre disperato.
Giovanni Nicoli si suicidò, praticamente, decidendo di morire di fame.
Ogni giorno persone varcano il confine fra Italia e Svizzera e decidono di diventare clandestini, fuorilegge, immigrati per porre fine al loro dolore in una di quelle cliniche della “buona morte”. Diventiamo , in pratica, gli “spalloni” di noi stessi.
Ognuno di noi può essere solo nella sua malattia, nel suo ultimo viaggio, in quella stanza dove viene mercanteggiato il tuo dolore.
Non è giusto.
Ad ognuno di noi deve essere assicurato il diritto alla vita contestualmente ad una dignità della morte.
E viceversa.
Dignità che non ha niente a che fare con respiratori automatici, sacche per le urine, pale per le feci, tubi per alimentarsi, aghi che entrano nelle vene e vene che collassano per i troppi aghi.
Ognuno di noi dovrebbe poter decidere, liberamente , di un “buon morire”, senza dover per questo portare sulle spalle un grave fardello fatto di dogmi religiosi, consuetudini morali, cavilli giuridici.
Credo che si sia capito come la penso, e, se può mai interessare, credo che questo possa essere considerato, laddove mai ne servisse l’utilizzo, il mio testamento biologico.
Non ho paura della morte quando arriverà.
Mi fa più paura non riuscire a morire quando vorrei.